Si ringrazia Giuliano Lastraioli per averci permesso la pubblicazione di questa nota. Da: BSE, vol.…
Lo Statuto di Pontorme: Presentazione della presentazione – di Giuliano Lastraioli
Vanna Arrighi, Marco Frati e Paolo Santini (in rigoroso ordine alfabetico) sono “del settore”, per usare una fortunata battuta del comico Panariello, nel senso che costoro, oggi come oggi, qui a Empoli, rappresentano il top degli studi di storia locale e non solo.
L’Arrighi ha una grande esperienza come archivista e paleografa; il Frati è padrone di ogni strumento utile alle indagini sul territorio e sulla cosiddetta cultura materiale, profondo conoscitore delle fonti e acutissimo nella loro valutazione critica e filologica; Paolo Santini, ottimo giurista e da sempre cultore della storia del diritto e delle istituzioni, affianca a tali doti una leggibile scrittura di stampo giornalistico.
Si tratta, dunque, di un team perfetto per lo studio collettaneo di un testo medievale che presenta non pochi problemi nel campo già ampiamente arato degli statuti comunali del contado fiorentino.
Facciamo un passo indietro per erudire convenientemente sull’argomento il colto pubblico e l’inclita guarnigione.
Sugli statuti dei comuni soggetti è già stato detto e scritto tutto e il contrario di tutto.
Dal grande Besta al nostro Latini, dallo Zdekauer al Caggese, dalle molte scuole regionali (lombarda, bolognese, marchigiana e toscana) si è fatto a gara per censire la produzione normativa municipalistica del nostro medioevo e dell’età moderna e per passare alla stampa le infinite sillogi reperite negli archivi, la sola elencazione richiederebbe un volume in folio come la Treccani.
Ai tempi remotissimi dei miei studi universitari, assai sconnessi per via delle troppo frequenti incursioni nel giornalismo e nella politicuzza paesana, vigevano due principali scuole di pensiero: quelli che snobbavano i testi statutari come “jus asininum” di matrice barbarica, privilegiando le fonti romanistiche rivisitate da Bartolo e Baldo; quelli invece che nelle misere carte municipali vedevano le scaturigini naturali del diritto patrio e ne coltivavano lo studio, soprattutto in funzione di approfondimenti euristici su base territoriale.
Eravamo negli anni Cinquanta del secolo scorso e quando mi accinsi a mettere le mani negli statuti empolesi fui preso per matto, tanto il tema appariva ormai desueto. Sul primo numero del “Bullettino”, uscito nel novembre del 1957, proposi un vastissimo programma di lavoro secondo una metodologia del tutto personale, passabilmente ruspante e circoscritta nel campo d’indagine, alla quale mi sono puntualmente attenuto ad onta di critiche e sberleffi.
Se date un’occhiata agli indici del “Bullettino” vedrete che, nel corso degli anni successivi, l’impegno assunto fu in buona parte adempiuto, anche se a pezzi e bocconi e con qualche comprensibile caduta del livello scientifico.
La mia attenzione si accentrò fondamentalmente sullo “jus statuendi” del comune soggetto in contado fiorentino e sull’andamento delle autonomie municipali nel passaggio dalla repubblica al principato. D’Addario, Chittolini e la Fasano Guarini ne hanno tenuto conto nei loro saggi, e non è poco, visto l’impianto settoriale delle mie ricerche, per l’epoca addirittura pionieristiche.
Dai tempi di Angelo Latini nessuno si era più occupato di queste materie. Soltanto Egisto Lotti, un avvocato erudito di Fucecchio, aveva pescato qua e là negli statuti, ma senza alcuna pretesa che esulasse dalla curiosità aneddotica e dalla spigolatura di colore (Cose d’altri tempi, Pisa, Nistri-Lischi, 1939; ristampato a Empoli, Caparrini, 1956).
Da allora non si contano i saggi a stampa e le tesi di laurea che hanno avuto per oggetto gli statuti del territorio che viene ora comunemente indicato come Empolese-Valdelsa.
A più elevate e supponenti altezze accademiche non sono mancati ulteriori interventi, anche di sintesi. Segnalo particolarmente il volume di Lorenzo Tanzini, Alle origini della Toscana moderna-Firenze e gli statuti delle comunità soggette tra XIV e XVI secolo, Olschki Editore, 2007), che merita ogni riguardo, pur se ignora assolutamente, anche in bibliografia, tutta (dico: tutta) la pubblicistica empolese. Idem per Silvano Imbriaci, La giurisdizione criminale in alcune podesterie minori, in Ricerche storiche. 1991/2, pp. 415-440.
Torniamo dunque al nostro trio Arrighi-Frati-Santini e allo statuto pontormese che essi hanno lavorato, indubbiamente con passione e acribia, e che presenteranno fra qualche giorno nella chiesa di San Michele Arcangelo, invocato in apertura del testo come protettore del luogo: “Arcangele Michael defensor istius terre esto propitius in adversis et tempore guerre”.
La tavola di Jacopo da Pontormo garantisce il successo.
Personalmente non mi sono mai occupato ex professo degli statuti di Pontorme, anche se ne ho pubblicato un rubricario in appendice ad una mia nota comparativa fra gli ordinamenti municipali di Pontorme e Monterappoli in relazione agli statuti empolesi (cfr. Ancora in tema di statuti, BSE, vol. II, a. V, n° 4, 1961/2, pp. 249-258, ma dicembre 1962).
Nella fattispecie il mio interesse storiografico si incentrava sullo studio della “vis attractiva” esercitata da Empoli sui i due comuni di Pontorme e di Monterappoli, fagocitati infine nel 1774. Come ci insegna il Davidsohn, già nel 1119 l’incastellatura di Empoli sotto la protezione del conte Guido Guerra aveva fatto ombra ai pontormesi di stretta osservanza albertesca e nel 1120 Pontorme fu addirittura posto sotto assedio dall’avversa fazione feudale. Come abbiamo più volte rimarcato, questa antinomia fu quasi una costante nel corso di vari secoli, ben documentata anche in diverse disposizioni statutarie.
A prescindere da questa tematica e dal rubricarlo sopra ricordato, che fu dato alle stampe soprattutto per la varietà delle materie regolate e per l’abbondanza di riferimenti toponomastici, anche curiosi, quello che deve essere ritenuto lo statuto “princeps” di Pontorme non mi interessò minimamente sotto il profilo codicologico. Reputai allora sufficienti ed esaustive le indicazioni recepite dall’inventario ufficiale dell’Archivio di Stato di Firenze, che datava la silloge al 1445, con tanto di tardiva annotazione a penna sul margine della prima pagina.
Che qualcosa non tornasse me ne resi conto molti anni dopo, quando – si era ormai nel 1993 – il professor Pietro Fiorelli, ordinario di storia del diritto italiano a Firenze, mi avviò un suo studente affinché lo seguissi nella gestazione di una tesi di laurea proprio sullo statuto di Pontorme. Fiorelli ne aveva letto il rubricario da me stampato nel ‘62 e lo aveva ritenuto stimolante. Ho ancora le fotocopie del codice 640, che quello studente era riuscito ad ottenere chissà come senza tante remore. La tesi non fu mai compilata perché quel giovane, assunto da Mediaset come telecronista, non si è mai più laureato, ma il ritorno di fiamma mi incitò a riprendere con rinnovato interesse gli studi dei tempi andati.
Intanto mi accorsi subito che la data del preambolo era taroccata: da 1345 a 1445. Un 4 era stato malamente soprascritto a un 3 di foggia stranissima, quasi serpentina. Lo stile della datazione è quello fiorentino “ab Incarnatione” (siamo al 22 marzo), quindi l’anno corrente secondo lo stile comune è il 1346. L’indizione romana richiamata nel testo è la tredicesima, per cui (cronologia del Cappelli alla mano) torna buono l’anno 1345 (il 1445 cadde sotto l’ottava indizione).
Ma v’è di più. A carte 61-recto abbiamo l’approvazione dello statuto, che figura però depennata da un energico sbaffo d’inchiostro. Quel provvedimento risulta emesso nientemeno che nel 1440.
I conti non tornano e siamo ansiosi di conoscere il pensiero in proposito dei nostri tre curatori, che sicuramente avranno condotto oculate indagini sulla genesi e sulle vicissitudini del codice in questione. E’ un originale? E’ una copia? E’ stata esaminata la filigrana della carta per accertarne la provenienza e l’epoca di fabbricazione? Si sa nulla del notaio rogante, un ser Pietro Ubaldini da Carmignano? E’ sua la grafìa?
Anticipare di un secolo un chirografo di questa portata non è cosa da poco, ma sono sicuro che i nostri eroi chiariranno ogni dubbio, dato e non concesso che qualche dubbio rimanga.
La mia curiosità verte soprattutto sulle motivazioni dell’inghippo, posto che il contenuto normativo dello statuto in esame non presenta oggettivi misteri.
Il contesto storico è fra i più apocalittici. Nel 1346 la repubblica fiorentina usciva dalla crisi politica seguita alla cacciata del duca di Atene. Il contado, sfiancato dalle scorribande di Castruccio Castracani e di Mastino della Scala, veniva regolarmente saccheggiato e devastato (nel 1336 era stato distrutto il Borgo di Santa Fiora, mai più rialzatosi); si approssimava la tremenda carestia del “biennio 1346-1347, per finire alla terribile peste nera del 1348. Un quadro veramente fosco, quasi da fine del mondo.
Eppure i pontormesi, proprio in quel torno di tempo, provvidero a riordinare con uno strumento normativo di lunghissima durata l’assetto istituzionale del loro comune.
Se si colloca lo statuto al marzo 1346 e si considera che pochi mesi dopo a Pontorme si moriva di fame c’è quasi da rimanere stupefatti, la canova municipale dovette incettare sul mercato oltre 38 moggia di grano e 33 di altri cereali per dare alla popolazione un pezzo di pane, spesso confezionato più col panico che col frumento (G. Pinto, Il libro del biadaiolo. 1978 p. 45). Il quadro è tutt’altro che allegro, ma lo statuto resse e con ogni probabilità fu anche riciclato per le future esigenze, come sembrano voler dimostrare le vicissitudini della legislazione pontormese, ancorata a durevole persistenza sotto la protezione della potente famiglia cittadina dei Soderini e specialmente di quel Tommaso Soderini che fu un importante arnese di casa Medici (Tanzini, op. cit. p. 130).
*
Questo è quanto, nell’attesa che il preclaro collegio dei nostri sagaci curatori ci sveli tutti gli arcani. Staremo a vedere.
Poi, come concludeva sempre Giovanni Lami, “eruditiores inquirant”.
GIULIANO LASTRAIOLI
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Premetto che non sono uno specialista in materia. Però effettivamente è possibile interpretare la data in due modi: 1345 indi[zione] 3 oppure 1445 ind[izione] 13, che in entrambi i casi risulta corretta. Ora guardando il segno verticale vicino al numero di indizione, che si può leggere come numero “1” o come lettera “i”, effettivamente risulta essere più vicino al numero 1 della data, piuttosto che alla lettera i con la quale inizia la parola indizione. Quindi se effettivamente si tratta di indizione 13, l’anno è il 1445. Tuttavia, a beneficio della correttezza, bisogna dire che fra la normativa statuaria delle comunità d’area fiorentina del ‘300 e quella del ‘400 di solito ci corre una bella differenza, proprio perché nel frattempo erano stati “riformati” gli Statuti di Firenze nel 1415, che influenzarono in maniera più o meno significativa tutta la normativa locale. Per farsi un’idea più precisa, non rimane che sfogliare la pubblicazione di prossima presentazione e leggere le argomentazioni proposte dagli studiosi.