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Giuliano Lastraioli: Wintergewitter Aktion, L’Ultima Paura

Martedì 26 dicembre 1944

Festa di Santo Stefano Protomartire, patrono della parrocchia di Bastia, diocesi di San Miniato, già di Lucca come Torrebenni, comune di Empoli, provincia di Firenze, ufficio postale e stazione ferroviaria: Ponte a Elsa, stazione dei Carabinieri Reali: Bastia di Empoli.

Ponte a Elsa Villa Capoquadri
Ponte a Elsa Villa Capoquadri

In tempi normali la solennità patronale si festeggiava il 3 agosto, giorno dell’invenzione del corpo di Santo Stefano, ma nell’anno bisestile 1944 il 3 agosto, alla Bastia, proprio sulla linea del fronte, piovevano cannonate da ogni parte e si scontravano, anche in combattimenti ravvicinati, i tedeschi della 26. Panzer e gli indiani dell’Ottava Divisone. In un corpo a corpo, proprio quel giorno, era rimasto ucciso alla Bastia il sottotenente Hohstettler, comandante della prima compagnia del 90 reggimento Panzergrenadier.
Passata la burrasca, la festa del santo patrono fu recuperata il 26 dicembre.
Oddìo, come festa era piuttosto misera, col parroco don Omero Cecconi e il priore di Canneto, il giovane e fiero don Larino Regoli, venuto a coadiuvarlo e a intonare con la sua voce stentorea l’antifona rituale, che ancora mi risuona nelle orecchie: “Stephanus autem, ptenus gratia et fortitudine, faciebat signa magia in populo”.

In verità c’era poco da festeggiare. Fra l’altro ricorreva anche il primo anniversario del bombardamento aereo americano di Empoli, che aveva fatto più di cento vittime civili e neanche il pizzicore ai tedeschi. I lutti erano recentissimi e le difficoltà della ripresa insostenibili. Nondimeno ci si riteneva ben contenti di vivere almeno senza più l’angoscia di pericoli immediati.

*

Terminato il vespro verso le cinque pomeridiane si era ormai fatto buio, ma noi chierichetti ci attardammo in canonica perché la sorella di don Cecconi, la mitica “Dina del prete”, ci aveva preparato una merenduccia a base di pane raffermo e di marmellata di zucche, una sua specialità casalinga.
Dopo pochi minuti si sentì bussare concitatamente alla porta. A quei tempi bastava poco per metterci in allarme, tanto più che proprio le canoniche erano diventate il bersaglio preferito dei malintenzionati. Nella vicina Calenzano il priore Ristori, già cappellano nel Regio Esercito e fresco reduce dai Balcani, aveva dovuto scarrellare la Beretta d’ordinanza per scacciare con le buone maniere un branchetto di saccardi girovaghi che si erano presentati a sgraffignare quattrini, cibarie e fischi di vino.
Il priore si affacciò guardingo a una finestra e ci tranquillizzò subito. Alla porta c’erano il maresciallo Giacomelli e il brigadiere Novellini che volevano parlare con don Cecconi. Venivano direttamente dalla vicina caserma dei carabinieri e dovevano comunicare “una brutta notizia”.
Furono fatti entrare nel salotto dove noi ragazzi stavamo terminando la merenda. Le loro facce denotavano preoccupazione.
“Sor priore”, cominciò il Giacomelli, “forse non è vero, ma giù all’Osteria Bianca, nel casotto della Military Police, c’è una gran confusione. Al quadrivio hanno fermato tutto il traffico che viene dalle parti di Firenze e di Siena. Fanno passare soltanto i mezzi militari che arrivano da Livorno. In poche parole glielo voglio dire perché lei contribuisca a tranquillizzare la popolazione. Pare che gli americani scappino. La voce è che in Garfagnana i tedeschi e i repubblichini abbiano sfondato il fronte alleato. Una intera divisione americana, la Buffalo, tutta di negri, si è sicuramente data alla fuga. I comandi non riescono a tamponare e si teme il tracollo. Anche i brasiliani di Stàffoli hanno tolto le tende. Aspettiamo tranquilli domattina per vedere se la situazione si stabilizza. Intanto lei, sor priore, se qualche parrocchiano si mettesse in agitazione, faccia di tutto per calmano. Vedrà che il comando alleato prenderà provvedimenti. Sarebbe il colmo se dovessimo sfollare ancora in pieno inverno.”
Non facemmo in tempo a spaventarci o a preoccuparci che, in quel momento, si presentò in canonica il campanaro Alfredo Pistolesi detto Ficomoro. “Sor priore, ci risiamo. Ero alla casa del popolo per bere un bicchiere quando è arrivato Coccolino”. Era questo il soprannome del barbiere Bruno Falaschi, indiscusso capo dei comunisti locali, che fu poi sindaco di San Miniato e presidente della provincia di Pisa. “Ha informato tutti i presenti che c’è il rischio di una rotta alleata e che bisogna prepararsi ancora una volta alla lotta partigiana. Io sono venuto subito qui per riferire, ma giù al fascio” (la cosa del popolo era stata installata nella ex casa del fascio e qualche volta alla gente scappava per abitudine la vecchia denominazione) “si sono messi un po’ tutti in stato d’allarme. Noi che facciamo?”
Don Omero Cecconi, nella circostanza, fu serafico come al solito e rispose: “Nulla. Io vado a cena e poi a letto. Domattina si vedrà. Voi ragazzi tornate a casa sereni e tranquilli. Ci penserà Santo Stefano, nostro celeste patrono. Non c’è da aver paura. Questi sono colpi di coda destinati a consumarsi per mancanza di fiato. Buona notte a tutti e sia lodato Gesù Cristo.”
Fu questo il congedo del parroco, ma noi chierichetti (c’erano con me Lido Marini, futuro curato di Bassa, Eros Nascosti, Gino Cipollini, Gino Dani, Siro Arrighi, Luigi Billeri Giuliano Santini e qualche altro ragazzetto che non ricordo) non eravamo per niente convinti della sicumera del priore.
Prima di rincasare andammo tutti sull’aia del Cappelli, da dove si domina quell’amplissima parte del Valdarno chiusa a nord in semicerchio dalla chiostra montuosa che, guardando da sinistra, va dal monte Pisano alle Apuane, alle Pizzorne, al Libro Aperto, al Corno alle Scale e digrada a destra fino al Montalbano. Praticamente tutto il settore occidentale della Linea Gotica. Il 22 agosto c’era Stato anche il generale Clark, comandante della V Armata USA, che era rimasto estasiato dal panorama e dalla ampie possibilità di un’ottima osservazione.
L’oscuramento era totale. Non si vedeva un lumicino in tutto l’arco dell’orizzonte.
Però, di tanto in tanto, sul piatto crinale delle Pizzorne, a una trentina di chilometri da noi in linea d’aria, apparivano di quando in quando dei lampi che illuminavano quel settore e, dopo qualche tempo, circa mezzo minuto, si udiva anche un lontano brontolìo simile al tuono. Ma non erano fulmini e tuoni. Il cielo era sgombro di nubi e il fenomeno continuava. Avemmo così la percezione che si trattasse di un fuoco tambureggiante d’artiglieria, mai più udito dai primi di settembre, quando gli Alleati si decisero a passare l’Arno. A occhio e croce le vampe si sprigionavano dal rovescio delle Pizzorne, nell’area di confluenza della Lima nel Serchio. Dal ricordo alla paura il passo fu breve. Rientrammo velocemente a casa e demmo la notizia ai nostri familiari.

         A casa mia non dissi nulla di nuovo perché nel frattempo era rientrato anche mio cugino Pietro, al quale il suo amico Denis, sergente della Military Police, aveva già riferito al casotto dell’Osteria Bianca che un’offensiva tedesca su vasta scala era in corso e che la situazione minacciava di precipitare.
Mio padre non ci voleva credere e , in effetti, ebbe infine ragione. Mise legna nella stufa e impose a tutti calma e sangue freddo: “Domattina di vedrà”.
Quella notte dormii poco. La pur remota prospettiva di dover lasciare ancora il calduccio di una casa da poco riconquistata alla volta di ignote destinazioni mi spaventava. I bivacchi invernali sotto le stelle sono romantici nei quadri e nelle stampe, ma nella realtà non hanno nulla di epico.
La mattina successiva dovevo recarmi all’ufficio postale del paese, dove mia zia Ginetta, unica addetta, mi aspettava per darmi l’incarico di obliterare con un apposito timbretto a griglia tutti i fasci littori o repubblicani che ancora intestavano la vecchia modulistica in dotazione alla ricevitoria: vaglia, telegrammi, buoni postali, mazzi etichettati e compagnia bella. Questi erano gli ordini della nuova direzione provinciale insediata dall’A.M.G., il governo militare alleato.
La zia mi rimandò a casa. Era di umor nero. Mi disse: “Aspettiamo ancora qualche giorno a fare quel lavoro. Si sente dire che c’è la probabilità che ritornino quegli altri”.
L’ufficio postale era proprio a ridosso del ponte Bailey sull’Elsa, che gli americani avevano gettato sulle pigne residue del vecchio ponte leopoldino distrutto il 23 luglio dai tedeschi in ritirata.
Ci passava tutto il traffico da Firenze a Livorno e viceversa. Un team di MPs provvedeva ad alternare il transito nell’unico senso praticabile. A ogni sfocio del ponte c’era un cartellone giallo con questa scritta a caratteri enormi: “ONE WAY – STOP HERE FOR SIGNAL”.
Quella mattina facevano passare soio i veicoli che provenivano dalla parte di Pisa e di Livorno. Nell’altro senso il traffico era ancora bloccato e ciò stava a significare che a ovest si profilavano tuttora dei problemi. In breve, il flusso unidirezionale denunciava una situazione di incertezza, se non proprio di insicurezza. A dire il vero sembrava che dal lato mare scappassero.
Questa musica durò fino alla notte del 27 dicembre.
La mattina del 28, sul tardi, riprese lentamente il traffico anche verso il mare. Nel pomeriggio mi misi a fare i còmpiti assegnati per le vacanze natalizie. L’esagerata professoressa Vannini ci aveva caricato: analisi logica di un bel pezzo del canto di Nausicaa nella versione del Pindemonte e traduzione di quattro paginate di Cornelio Nipote. Allora usava così anche in seconda media.
Ci facevano sfacchinare davvero.
Il 29 le cose tornarono “alla normalità” (fra virgolette). Ricominciarono a passare anche le colonne dei “tre assi” che portavano a Livorno i soldati tedeschi presi prigionieri fra Pistoia e il Mugello.
Ci fu solo un cambiamento. La gente smise di prendere a mattonate gli smunti e cenciosi uomini di Kesselring durante le soste degli autocarri alle strettoie del ponte. La frase più corrente era: “Non si sa maì”.
L’operazione Wintergewitter (temporale d’inverno) era abortita senza procurare danni dalle nostre parti. Solo un momento di paura.
Per San Silvestro mia nonna mi spedì a prendere un bricco di latte da Eugenio Mantellassi, un mezzadro del sor Antonio Del Vivo che teneva qualche mucca in una stalla non lontana da casa mia. Eugenio, che durante il ventennio non aveva mai ricoperto alcuna carica, era stato l’ultimo segretario politico del fascio repubblicano del paese. I maggiorenti erano scappati tutti al nord.
I partigiani, dopo la liberazione, lo avevano un po’ strapazzato, ma non troppo, perché era universalmente conosciuto come una pasta d’uomo.
Aveva voglia di parlare: “O nini, hai sentito dell’offensiva tedesca in Garfagnana? Che ti ho a dire? Io ci speravo… “.

Il mondo è bello perché è vario.

GIULIANO LASTRAIOLI

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