L'abitato di Limite sull'Arno in una rara immagine d'epoca del Fondo Caponi. Sulla sinistra si nota il fronte della chiesa di San Lorenzo prospiciente la medesima piazza.
Empoli in gabbia, a cura di Giuliano Lastraioli e Roberto Nannelli
DOSSIER “PRIMO MARZO”
“Le guardie regie in péntola lo fanno il brodo giallo, carabinieri in umido e arrosto il maresciallo”.
Canto sovversivo del ‘21
“ – Di che partito siete? – domanda ancora il Presidente allo “sciancato”. – Il mio partito è quello di andare a casa e trovare la roba apparecchiata sulla tavola… (Ilarità prolungata).”
Assise di Firenze, udienza del 16 maggio 1924, interrogatorio dell’imputato Cantini Lindoro (da “La Nazione”, 17 maggio 1924)
Regnante Vittorio Emanuele III di Savoia-Carignano, detto “Gambine”; presidente del consiglio dei ministri Giovanni Giolitti da Dronero, detto “Palamidone”; pretore mandamentale l’avvocato Luigi Landolfi; commissario di Pubblica Sicurezza l’avvocato Ermindo Roselli; comandante la tenenza dei Reali Carabinieri il tenente dottor Guido Solaini; comandante la stazione dei Reali Carabinieri il maresciallo maggiore “a piedi” cav. Enrico Cristallini; sindaco del Comune il socialista Riccardo Mannaioni; proposto della Collegiata monsignor dottor Gennaro Bucchi; al tramonto di martedì 1° marzo 1921, giornata di sciopero generale, nove soldati italiani di vent’anni o poco più (un artigliere, tre carabinieri e cinque marinai) furono ammazzati come rospi nelle vie e nelle piazze di Empoli, negli orti e nelle campagne del suburbio, nel fiume Arno.
Trucidati, come stabilirono le sentenze mai sottoposte a revisione dopo il ‘45, “con brutale malvagità”.
Ad essi devono aggiungersi parecchi feriti, alcuni gravissimi: emblematica l’odissea del marinaio Michele Vallelunga da Palermo, sulla quale il lettore troverà in appendice un ritaglio di stampa ormai dimenticato e fulminato da anacronistiche censure di improponibilità.
Erano i tempi in cui il capitano dei carabinieri di San Miniato, se voleva arrivare indenne a Empoli, doveva montare a cavallo come uno sceriffo del Far West e muoversi attraverso boschi e campagne, scollinando i poggi, scansando la via Pisana e passando l’Elsa a guado sui renai.
Tutti i racconti che dal ‘21 aoggi sono stati fatti del tragico episodio hanno un duplice difetto: la tendenziosità (sia da parte fascista che da parte socialcomunista) e la lacunosità, spiegabile questa col mancato esame di fonti documentarie finora inaccessibili.
Memorialisti e narratori sono da buttare: o si tratta di squadristi sbruffoni, come il Frullini e il Piazzesi, o di gente che doveva difendersi dalle responsabilità come Jaurès Busoni da una parte e il tenente Solaini dall’altra.
Le romanzate di Guido Milanesi, di Arturo Tofanelli, di Manlio Cancogni, di Vasco Pratolini, di Luigi Testaferrata, grossi nomi in verità, non hanno alcun peso sulla stadera della storiografia.
Gli storici fascisti, Chiurco e Gregori, dànno prodotti tipici del Ventennio, da registrare soltanto quando si farà una compiuta rassegna bibliografica sull’argomento.
Nel secondo dopoguerra – non poteva essere altrimenti – ha prevalso la tesi giustificazionista assunta ad articolo di fede, ma la truce mattanza non ha trovato molti indagatori dotati della necessaria acribia e di un sufficiente supporto scientifico.
Libertario Guerrini ha lavorato su un materiale interessantissimo (gli spogli del giudice istruttore Borrelli), ma non si può dire che la sua ricostruzione dei fatti, piuttosto farraginosa e talvolta contraddittoria, possa ritenersi esaustiva. Guerrini impernia il suo discorso sull’assunto dell’insurrezione reattiva a un tranello provocatoriamente teso al proletariato dalla borghesia; parla di conflitto a fuoco, ipotizzando perfino l’aberratio ictus. Il Cantagalli, poi, più sbrigativo, dà la colpa al pànico e alla debolezza dei militari sbandati; in una parola, alle vittime, comandate da ufficiali inetti.
Dei morti ammazzati, la famosa “carnaccia venduta”, poco o nulla, quasi fossero transitati a miglior vita per un raffreddore rimediato sul cassone dei “18 BL” nell’accidentato viaggio da Livorno a Empoli.
“Alcuni morti”, scrive Guerrini nella prima redazione del suo studio sulla storia del movimento operaio empolese (1954, pag. 245, ultima riga); “8 morti e 9 feriti” precisa – errando per difetto – nella seconda stesura (1970, pag. 227). Forse il carabiniere Pinna si gettò vestito nell’Arno ingrossato dalle piogge per un bagno fuori stagione…
Parlare di provocazione della borghesia può soltanto muovere al sarcasmo chi abbia conosciuto da vicino la malvacea inconsistenza politica degli empolesi di quel ceto. Basti rilevare che, al 1° marzo1921, inEmpoli non era stato ancora costituito il Fascio, di cui in seguito si resero promotori e massimi esponenti personaggi forestieri come il Codeluppi o individui che addirittura erano stati sospettati di aver preso parte al “fattaccio” come il Cinelli, il Livini, il Fioretti, il Sorbellini, tutti di matrice anarcoide e sindacalista-rivoluzionaria, per non citare il Taddei Dino, rinviato a giudizio nel “processone” e infine assolto, dopo essere evaso dal carcere il 30 ottobre 1922 con la complicità dei “camerati” in concomitanza della marcia su Roma.
Che parecchia gente implicata nell’eccidio sia rimasta immune da conseguenze penali, non c’è dubbio. Dal gabbione delle assise si alzò più volte la protesta: “Ci sono più colpevoli fuori che dentro!”. Né sussiste dubbio che, nella massa degli imputati, alcuni innocenti abbiano pagato per i veri responsabili, sfuggiti alla implacabile morsa del tenente Solaini e del suo maresciallo Cristallini. È lo scotto dei maxiprocessi, come ancor oggi constatiamo alla giornata.
Nel corso delle prime indagini il Solaini, il Cristallini e i loro dipendenti non fecero carezze per ottenere confessioni e chiamate in reità. Questo è certo o, almeno, ragionevolmente presumibile.
L’istruttoria, però, fu affidata a un magistrato di notevole equilibrio, il Borrelli, che setacciò un imponente apparato probatorio, in base al quale la sezione d’accusa pressola Corted’Appello di Firenze rinviò a giudizio – dopo diciotto mesi dai fatti – 138 imputati, prosciogliendone ben 74, fra i quali il sindaco di Empoli Riccardo Mannaioni, latitante, e altre personalità politiche del partito socialista.
Fu stralciata la posizione di nove imputati prosciolti dall’accusa di concorso nell’eccidio, ma rinviati davanti al Tribunale di San Miniato per rispondere di reati minori.
Solo nella primavera del 1924 fu possibile dare inizio al dibattimento in assise contro 132 imputati detenuti, di cui tre donne (la Innocenti, detta “la Cinquantaccia”;la Gini, detta “la Rossina” e la giovanissima Miranceli). Uno dei giudicabili in stato di arresto era defunto nel frattempo. Il processo si svolse col rito “francese”: intervento dei giurati e distinzione fra verdetto e sentenza, secondo i cànoni del giurì classico.
Il collegio difensivo annoverava i più bei nomi del foro toscano.
Sullo svolgimento della causa pesò non poco il clima di tensione determinato dall’affare Matteotti, che gettava ombre sinistre sul governo imperante. Il presidente Bosio fu assai energico nel raffrenare gli incidenti e, nel contempo, garantì il diritto di difesa.
Il dibattimento, celebrato in Firenze a palazzo Buontalenti, attuale sede della Corte d’Appello, durò sei mesi e si concluse il 31 ottobre 1924 con la lettura della sentenza pronunciata dal presidente che condannava 92 imputati a pene detentive varie secondo la gravità degli addebiti e assolveva gli altri 40 per i quali era stato negativo il verdetto dei giurati. Una ventina di condannati furono subito scarcerati per espiata pena, essendo stato applicato l’indulto. Nuovi provvedimenti di clemenza contribuirono ben presto a ridurre la detenzione di molti altri condannati. Di tali benefici non potè fruire Ginevra Innocenti, deceduta in cattività.
Grazie al condono del Decennale (R.D. 5.XI. 1932) anche il Maltagliati, futuro deputato alla Costituente repubblicana, fu liberato.
Contro i cinque imputati latitanti (Dario Parri, Raimondo Cioni, Vasco Ramagli, Giovanni Morelli e Adolfo Sandonnini) si procedé col rito “contumaciale”, cioè senza l’intervento dei giurati.La Corte(Bosio presidente, Zani e Del Re giudici di tribunale) fu più severa del giurì popolare ed irrogò altrettanti ergastoli, emettendo ordine di cattura per i condannati irreperibili. La sentenza, pronunciata il 3 novembre 1924 dopo un dibattimento-lampo, rimase sempre ineseguita. Il 27 giugno 1952 i reati furono infine dichiarati estinti per prescrizione e conseguentemente fu revocato l’ordine di cattura infruttuoso.
Il Morelli e il Sandonnini avevano trovato riparo nell’Unione Sovietica.
Sulla sorte degli altri tre non abbiamo notizie sicure.
Molti dei condannati su verdetto dei giurati ricorsero in Cassazione adducendo, fra gli altri mezzi di puro diritto, un motivo assai curioso: la porta dell’aula di udienza rimase chiusa a chiave, anziché restare aperta come di rito, nel tempo occorso al presidente delle assise per deliberare la sentenza.La Suprema Corte, con decisione del 24 aprile 1925, respinse il ricorso. Le condanne perciò passarono in cosa giudicata.
Mutato regime, nessuno ha mai chiesto la revisione dei processi, per cui “de jure” è giocoforza ritenere la legittimità delle sentenze. Addirittura qualcuno ha chiesto ed ottenuto, fino al 1968, la declaratoria di riabilitazione per buona condotta, riconoscendo così la regolarità della procedura.
* * *
II nostro “dossier” comprende la sentenza istruttoria nel procedimento penale contro Abati Alfredo+216 per i delitti di omicidio plurimo con brutale malvagità, insurrezione armata ed altro. Dalla sezione d’accusa la fattispecie dell’insurrezione armata fu esclusa con ampia motivazione.
Proponiamo in secondo luogo la sentenza definitiva nel processo contro Lombardi Natale+131, emessa dal presidente della Corte d’Assise di Firenze in coerenza al verdetto dei giurati. Segue la decisione della Cassazione nel testo massimato, che abbiamo estratto da una rassegna di giurisprudenza.
Queste tre pronunzie vengono pubblicate mediante riproduzione anastatica del materiale reperito, addirittura dall’originale a stampa per quanto concerne la sentenza istruttoria, cui abbiamo apportato soltanto la correzione di qualche refuso grossolano. La copia dattilografica della sentenza in data 31 ottobre 1924 è quella ufficiale esistente nell’Archivio di Stato di Firenze (solo le annotazioni in calce sono state da noi ribattute per ragioni di chiarezza).
Parimenti abbiamo curato la trascrizione dattilografica della sentenza 3 novembre 1924 contro Farri Dario+4, con attenta collazione rispetto all’originale manoscritto (rimane da risolvere una discrepanza circa l’anno di nascita dell’imputato Morelli Giovanni, che dovrebbe essere 1899 e non 1889, secondo quanto risulta dalla sentenza istruttoria e da altri documenti esaminati; tale errore, se di errore si tratta, permane nell’ordine di cattura).
Chiudono il fascicolo la sentenza del Tribunale di San Miniato in data 31 gennaio 1923 contro Amerizzi Oscar+8 per detenzione di armi e munizioni a fini sovversivi, ricavata in copia dattilografica dall’Archivio di Stato di Pisa e opportunamente collazionata con l’originale manoscritto, nonché la sentenza assolutoria del Pretore di Empoli in data 23 ottobre 1922 nella causa contro Rossi Giuseppe+3 per lo sciopero ferroviario del 28 febbraio 1921, il cui originale trovasi nell’archivio mandament—-7dccb1de0792
Content-DisposNel medesimo archivio si può esaminare anche la sentenza istruttoria n. 2/1925 del Pretore di Empoli nella causa contro Menozzi Gaetano+102, imputati di porto abusivo di armi in Empoli il 1° marzo 1921. Riguarda il nutrito gruppo delle cosiddette “guardie rosse”, nei confronti delle quali fu dichiarato non doversi procedere per prescrizione o per amnistia, a seconda dei casi singoli, con un solo proscioglimento nel merito.
Contro gli stessi imputati fu proceduto in via residuale soltanto per evasione della tassa di concessione governativa sul porto di pistola, contravvenzione tributaria non amnistiata e quindi punita in concreto con la pena pecunaria di lire 216 per ciascuno dei prevenuti.
Se questa era la “giustizia di classe”, come si è spesso sostenuto, bisogna proprio dire che la “classe dominante” si contentava di riscuotere un balzello! Non pubblichiamo questi ultimi atti perché si tratterebbe esclusivamente di una ripetitiva elencazione di nomi già considerati nell’epigrafe della sentenza pronunciata dalla sezione d’accusa. Per chi vorrà intraprendere uno studio serio ed approfondito della vicenda, ora che la legge archivistica consente anche la consultazione dei rapporti e dei verbali, essendo da poco trascorsi i settant’anni dalla conclusione dei processi, reputiamo di aver fatto opera utile offrendo intanto questa prima cernita di atti giudiziari.
È giunto il momento di abbandonare le vulgate, le impostazioni manichèe, le tesi preconfezionate.
Noi non esprimiamo valutazioni assertive, anche se queste sentenze parlano di agguato e non di rivolta insurrezionale; di violenza consapevole e non di un equivoco creato ad arte sull’arrivo di una spedizione fascista; di omicidi mirati e non di inevitabili conseguenze di un conflitto a fuoco, nel quale peraltro nessuno degli empolesi riportò un graffio.
Non vogliamo rinnovellare patimenti ed infamie, ma recare un modesto contributo alla conoscenza storica.
Eruditiores inquirant.
Empoli, 1° maggio 1995
GIULIANO LASTRAIOLI
ROBERTO NANNELLI
avvocati in Empoli
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