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Immagini dal passato: Rinaldo Cioni in Africa Orientale – di Claudio Biscarini

Le nove piccole immagini che ritraggono Rinaldo Cioni, con altri ufficiali del Regio Esercito, in quello che era l’impero che di nuovo era riapparso dopo quindici secoli sui colli fatali di Roma, ci riportano a un’epoca in cui l’Italia, ben ultima tra le potenze europee, scelse di prendersi un posto al sole.

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di Claudio Biscarini

L’avventura cominciò il 3 ottobre 1935 e, all’inizio, non fu proprio una marcia trionfale. Il regime la gabellò come guerra necessaria non solo per l’impero ma anche per abbattere la schiavitù che ancora era praticata in Etiopia. Le armate del Negus  pur armate male erano abbastanza agguerrite.

Purtroppo per loro, però, stavano per scontrarsi con un esercito moderno che mise in campo tutto quello che poteva: truppe, artiglieria, mezzi corazzati (234 carri L/33 le scatole di sardine), aviazione e armi chimiche. Il 6 ottobre, gli uomini del maresciallo d’Italia Emilio De Bono, che sarebbe finito sotto i colpi del plotone di esecuzione comandato da Furlotti a Verona nel 1944, presero Adua [i]dove avevamo incamerato uno dei disastri militari più forti della nostra storia. Il 9 novembre cadeva il fortino di Macallé[ii] e i soldati cantarono di una nonnina che per 40 anni aveva parlato di Galliano e tutti i suoi soldati e ora era arrivato il momento della riscossa: ritorna italiana anche tu Macallé.

Il 15 dicembre 1935, alla testa di un reparto di carri L/33, veniva ucciso il tenente Franco Martelli nella battaglia di Dembeguinà, e assieme a lui altri nove ufficiali e ventidue soldati nazionali più 370 ascari[iii]. Martelli si guadagnò la Medaglia d’Oro al Valor Militare e diversi riconoscimenti nella sua Vinci.

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Dalla Somalia era partito anche Rodolfo Graziani, dalla folta criniera, che si conquisterà il titolo di Leone di Neghelli. Intanto, la Società delle Nazioni ci aveva affibbiato le inique sanzioni che servirono a Mussolini come ottima arma di propaganda. In realtà, se l’Inghilterra e la Francia ci avessero voluto veramente ostacolare, bastava bloccare il canale di Suez ed era fatta. Invece, le navi con a bordo i soldati e le camicie nere passarono tranquillamente. Le sanzioni servirono spesso a far installare sulle facciate dei palazzi comunali delle lapidi dove si stigmatizzava questa azione politica. Oggi, alcune di esse raccolgono altri messaggi.

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Silurato De Bono, ritenuto troppo cauto, la palla passò a Pietro Badoglio, l’uomo per tutte le occasioni. La guerra prese un altro passo. Si susseguirono la prima battaglia del Tembien, la battaglia di Passo Uarieu, dove la croce di Giuliani sfolgorò[iv], la battaglia dell’Endertà la seconda del Tembien, quella dello Scirè e di Mai Ceu. Piano piano, le forze etiopiche furono sconfitte, la sola unità abbastanza ben armata, la Guardia Imperiale, non riuscì a capovolgere la situazione, anche perché l’uso dell’iprite lanciata dall’aria e le rivalità tra i vari ras etiopi iniziarono a minare la resistenza.

Rinaldo Cioni
Rinaldo Cioni

Il 5 maggio 1936 alle ore 16, alla testa delle truppe vittoriose, Badoglio entrava in Addis Abeba, la capitale, su un cavallo bianco. Mussolini, con una piazza Venezia stracolma di gente, poteva annunciare il 9 maggio XIV dell’era fascista che tutti i nodi erano stati tagliati dalla nostra spada lucente e la vittoria africana resta, nella storia della Patria, integri e pura come i legionari caduti e superstiti la sognavano e la volevano aggiungendo con enfasi che  l’Italia ha finalmente il suo impero,  lo feconderà col suo lavoro e lo difenderà contro chiunque con le sue armi.  Il titolo di imperatore andava a Vittorio Emanuele III e ai suoi successori. Avevamo perduto 4.350 soldati nazionali e circa 4.000 ascari, molti di più per malattia che in combattimento. Gli etiopi segnalarono la perdita di 275.000 morti in guerra, a cui aggiunsero 78.500 trucidati durante l’occupazione e 30.000 ammazzati da Graziani durante il periodo del suo vicereame. Il regime aveva raggiunto l’apice del consenso: anche i pochi irriducibili antifascisti pensarono che niente e nessuno avrebbe più abbattuto il Duce.

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La guerra non era finita, e non sarebbe finita mai. La guerriglia etiope non lasciò in pace i conquistatori. Attacchi su attacchi a soldati isolati, stazioni dei Reali Carabinieri sparse nel territorio. Il 13 febbraio 1936 c’era stato il massacro degli operai del cantiere della Gondrand a Utok Emni: con gli operai erano morti ammazzati dagli uomini di Chenfè, un subalterno di ras Immirù, gli ingegneri  Roberto Colloredo Meis, Cesare Rocca e la moglie Lydia Maffioli.

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Rinaldo Cioni

Quanto durò il nostro impero? Da Natale a Santo Stefano. Il 10 giugno 1940 Mussolini dichiarò guerra a Francia ed Inghilterra. In quella che si chiamava Africa Orientale Italiana, il vicerè Duca Amedeo d’Aosta tentò qualche piccola offensiva. Conquistammo il Somaliland britannico e poco più. Poi, inglesi e etiopi partirono al contrattacco. Abbandonati dalla Madrepatria, gli italiani combatterono bene, direi benissimo, e si coprirono di gloria nella difesa di Cheren e di Gondar, dove il il 1° Gruppo Mobilitato dei Reali Carabinieri, 200 Reali Carabinieri nazionali e 160 zaptiè[v], al comando del  colonnello Augusto Ugolini,  e il CCXL battaglione Camicie Nere, 675 legionari al comando del seniore Alberto Cassòli,  si immolarono quasi al completo nella battaglia di sella Culquaber.  Il 27 novembre 1941 cessò la resistenza e con essa il nostro effimero impero.

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Nelle piccole immagini di Cioni, si vedono ufficiali italiani in riposo, che fraternizzano con i civili etiopi, spesso accadeva anche con le faccette nere, belle abissine[vi] ma il regime non gradiva: troppa mescolanza razziale  per colui che stava per seguire, lo avrebbe fatto tra due anni, le orme del tedesco. La pace che traspare da queste immagini (ignoriamo in che data esse sono state scattate) farebbe supporre che, appunto, l’Etiopia fosse una colonia pacificata, nella quale tutti, italiani e autoctoni, vivessero in armonia. Non fu così, almeno non per tutti. Valeva la pena? Certamente no. In quella guerra coloniale, ma condotta con ampi mezzi, sperperammo non solo armi ed equipaggiamento, e lo faremo anche in Spagna, ma soprattutto risorse economiche che non riusciremo più a colmare.

 


Note e Riferimenti:

[i]  Il 1 marzo 1896, presso la città di Adua, un corpo di spedizione italiano al comando del generale Oreste Baratieri e con i generali Giuseppe Arimondi, Vittorio Dabormida , Matteo Albertone e Giuseppe Ellena, 17.700 effettivi con 56 pezzi d’artiglieria, fu sconfitto dagli uomini del negus Menelik II, 100.000 combattenti con 42 pezzi d’artiglieria e mitragliatrici. Gli italiani persero 7.000 morti, 3.000 prigionieri e 1.500 feriti. Fu un disastro completo che bloccò la conquista dell’Etiopia.

[ii] La guarnigione italiana del forte di  Enda Yesus a Macallè, al comando del maggiore Giuseppe Galliano, era forte di 1.350 uomini ( 20 ufficiali e 190 sottufficiali e truppa nazionali e 1.150 ascari eritrei). Sostenne l’assedio di 100.000 etiopi del ras Mekonnen dal 15 dicembre 1895 al 22 gennaio 1896. Il 19 gennaio 1896, un accordo tra italiani ed etiopi mise fine all’assedio e gli italiani poterono ripiegare verso le proprie linee. Le perdite furono di 30 morti e 70 feriti.

[iii] Soldati reclutati in Etiopia ed Eritrea per svolgere servizio nelle forze armate italiane.

[iv]  La battaglia del Passo Uarieu si svolse dal 21 al 24 gennaio 1936 tra la 180a Legione Camicie Nere “Alessandro Farnese” della 2a divisione Camicie Nere “28 ottobre” , circa 3.000 uomini, e gli armati di ras Cassa, 20.000 effettivi. La battaglia venne caratterizzata dalla resistenza della compagnia mitraglieri che permise alla colonna del console della MVSN Diamanti di salvarsi da una brutta situazione. Nei combattimenti cadde  mentre soccorreva l’amico Luigi Valcarenghi padre Reginaldo Giuliani, cappellano militare della colonna Diamanti, che fu a Fiume con D’Annunzio e alla marcia su Roma. La strofa che lo ricorda è tratta dal Canto del legionario.

[v] Militari libici, eritrei e somali arruolati nell’Arma dei reali Carabinieri per il servizio oltremare.

[vi] La canzone Faccetta nera che celebrava l’amore tra i legionari italiani e le belle etiopi venne proibita dal regime, ma ebbe un gran successo di pubblico che è arrivato fino ad oggi perché si tratta sicuramente della canzone del ventennio più nota.

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