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Claudio Biscarini: L’incontro

La casa sul limitare dell’argine del Rio dei Morticini, che scende dal monte verso il Piano di Spicchio, era lì dal 1920. Costruita con i “pillori” d’Arno, senza fondamenta come usava allora per molte delle case dei mezzadri, a calce senza aver visto un solo cucchiaio di cemento.

1) Il buco fatto nella loggia di casa Cappelli da una cannonata, visibile ancora negli anni ’90

Vi abitava la famiglia Cappelli con Giuseppe e Angiolina e i figli Pietro, detto Pugliano, con la moglie Amelia Fanciullacci e la figlia Grazzietta, con due “zeta” per via di un errore dell’ufficiale di anagrafe, e Mario con la moglia Giulia Morelli e il figlio Giuseppe, detto Il Tao grande tifoso dell’Empoli. Pietro, in realtà, del mezzadro faceva ben poco preferendo occuparsi della compravendita di bovi, vacche, vitelli e maiali.

Possedeva un calessino con tanto di cavallo con il quale svolgeva la sua attività di lavoro. Un giorno andava bene e due male, ma tutti proprio adatti agli affari.

Mario era più posato, più taciturno e patito del biliardo. Contrariamente al fratello, che usava vivere anche molto di notte, Mario alle 11 spaccate era a letto. Nessuno dei due era fascista, ma in realtà, nessuno dei due si occupava di politica.

Bene o male, tutto procedeva. Sovigliana e Spicchio, negli anni ’30 dello scorso secolo, erano distanti anni luce da quel che sono oggi. Un piccolo agglomerato di case intorno alle due chiese erano il centro da cui partivano due file di altra abitazioni lungo la riva dell’Arno verso il ponte Leopoldino.

Dalla parte del lungarno spicchiese che si chiudeva sul Rio dei Morticini c’era la caserma dei Carabinieri Reali e, subito al di là del ponticino che scavalcava il piccolo fiumiciattolo, la scuola con l’”ortino” per la ricreazione. Poi, in pratica, poco altro fino a Sovigliana, salvo il lungo argine di contenimento delle piene d’Arno. Verso Poggiarello e il cimitero, tutto campi.

La guerra, scoppiata il 10 giugno 1940, non portò inizialmente grandi sconvolgimenti nelle due famiglie. Angiola era vedova da tempo e ora i due fratelli, ormai uomini adulti, erano coloro che tenevano le redini della casa. L’annuncio di Mussolini certamente non portò gioia in casa Cappelli.

Pietro aveva fatto in tempo tra gli ultimissimi, era del 1900, ad andare alla Grande guerra in artiglieria dove, in realtà, non si era coperto proprio di gloria. A venti anni, poi, lo avevano spedito in Libia dove era diventato portaordini, a Tripoli, perché sapeva andare in bicicletta. Ora, a 40 anni, non correva rischi ma non amava la guerra che, seppure di sfuggita, aveva già assaggiato.

I primi anni, specie in campagna, anche le restrizioni alimentari non si facevano sentire così forte e, non avendo ancora giovani in età di leva, le due famiglie continuavano a vivere la loro vita. Certo, commerciare in bestiame era diventato molto più complicato e spesso era più lo scapito del guadagno, ma c’era sempre, nei tempi magri, la terra.

Poi venne il 1943. Giuseppe, il figlio di Mario, nato nel 1924 venne richiamato. Non fece a tempo a partire che era già a casa: l’8 settembre era scappato come molti altri. Da quel momento, diventato “renitente alla leva”, dovette rimanere nascosto perché lo cercavano un poco tutti. La notte del 9 novembre 1943, poi, due grosse esplosioni scossero la casa dei Cappelli.

Due bombe, sganciate da un solitario aereo, si saprà nel tempo essere un Wellington della Royal Air Force britannica, del gruppo che doveva attaccare Pontassieve, erano state sganciate nei campi “dietro casa”.

La RAF, quella notte, snocciolò bombe da Poggibonsi a Montelupo a causa del cattivo tempo. Le buche di quei due ordigni, rimarranno nei campi, anche se “smussate” dalle successive arature, fino ai giorni della grande crescita edilizia. Il 26 dicembre 1943, la famiglia di Pietro era a pranzo nella casa dei Fanciullacci, parenti della moglie, “Sotto Poggio”, quasi ai piedi della chiesetta di Petroio quando, ad un tratto, un fragore enorme fece alzare tutti da tavola e andare alla finestra dove videro, verso Empoli, una enorme nuvola di fumo che si alzava.

Era il quartiere delle Cascine che saliva al cielo colpito dai Marauders del colonnello Holzapple. Ormai, la guerra non era più una cosa lontana ma bussava alla porta di casa e in maniera fragorosa e terribile. A luglio del 1944 era ormai chiaro che i tedeschi, rimasti soli a combattere, erano in ripiegamento. Una sera, un reparto ippotrainato si accampò nel campo coltivato a pesche che si trovava a lato della casa dei Cappelli che, in verità, passarono una notte di angoscia e paura. Non successe niente. Solo che a grossa, era una cosa preziosa. Amelia la richiese indietro, ma ebbe un diniego. La pentola, ormai, era arruolata nella Wehrmacht. Ma il Feldwebel non aveva fatto i conti con questa cocciuta donnina cerretese di nascita. Senza por tempo in mezzo, salendo la scala gerarchica a quattro a quattro, Amelia se ne andò a parlare col comandante al quale, in modo risoluto, chiese la sua pentola indietro. L’ufficiale, però, non capiva la parola “pentola” e non capiva cosa volesse questa piccola ma dura signora italiana. 

E’ proprio vero che la fortuna aiuta gli audaci, o Dio a volte guarda giù in modo giusto. Tanti altri, in quella estate del 1944 furono uccisi per molto meno. Ma non Amelia. Finalmente il tedesco capì e urlando “Ah! Marmitta!”, dette ordine immediato che il pentolone tornasse italiano. Poi, come tutti, le due famiglie furono costrette ad abbandonare la casa sul bordo del Rio dei Morticini.

Andarono, come tanti altri, sul Monte Albano sfollati. Posto quando mai non indicato. Le due famiglie si beccarono le cannonate americane per quaranta giorni, videro malati di tifo a causa delle pessime condizioni igieniche, videro i partigiani sul monte e i tedeschi in fuga.

Gli ultimi due erano giovanissimi e spauriti. Ormai pareva finita, ma nessuno se la sentiva di scendere a vedere che cosa era successo e se si poteva veramente tornare a casa.

Mario non era mai stato un leone. Pietro, invece, era fornito di una discreta dose di coraggio o di incoscienza e partì. Arrivato alla casa, notò subito che la stanza dove aveva la camera da letto era stata distrutta e le macerie coprivano il terreno. Un buco enorme era dietro il muro della “loggia” dove si riparavano i carri per la notte. Davanti a casa, spezzati per terra, i personaggi in gesso del presepe di Grazzietta, usati dai tedeschi come bersagli.

Dappertutto, in casa, vomito ed escrementi e la macchina da cucire Singer a pedali di Grazzietta, che era stata murata per non farla trovare, parzialmente smurata e col ripiano da lavoro sporcato. Tutto attorno, silenzio. Improvvisamente, mentre Pietro continuava nella sua ricognizione, udì alle sue spalle il caratteristico “click” di un otturatore quando la pallottola entra in posizione di sparo. L’uomo trasalì: era la fine, ora gli avrebbero sparato. Era stato un bischero a scendere troppo presto, forse lì attorno c’erano ancora tedeschi. Si girò lentamente, con le mani ben alte sopra la testa e vide due soldati con una uniforme diversa da quella tedesca, con un elmetto  “a padella” e in mano un corto fucilino[1]. Erano gli alleati. Pietro non ebbe noie, poté tornare sul Monte Albano e dare la lieta notizia.

A parte le mine, si poteva tornare. Due giorni dopo, le famiglie di Pietro e Mario erano di nuovo a casa dove ricevettero la visita di un soldato sudafricano il quale, molto gentilmente, regalò loro un bel pezzo di carne. Ora, la carne non era stato tanto facile da trovarsi durante l’emergenza e il pensiero di un bel pezzo di “lesso” con una minestrina in brodo, allietò ancora di più il ritorno. Purtroppo, la carne era di pecora e, messa a bollire nella famosa “marmitta”, emise un fetore talmente grande che, nonostante la fame, marmitta e carne e brodo finirono nella concimaia.


[1] Probabilmente uno Sten.

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