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Claudio Biscarini: Com’era verde la mia valle

A chi oggi, residente o di veloce passaggio, capiti di attraversare le “frazioni” di Spicchio-Sovigliana del comune di Vinci, non immaginerebbe mai che, solo poco più di quarantacinque anni fa, quel territorio che viene attraversato oggi dal viale intitolato al “Migliore”, fosse una bella distesa verde.

sovigliana

Intanto, bisogna specificare che allora le due frazioni erano ben distinte: Spicchio da una parte Sovigliana dall’altra. C’era anche una discreta rivalità fra i due borghi. Il “confine di stato” passava dal Rio dei Morticini, oggi inglobato in una urbanizzazione senza fine, ieri scorreva (quando scorreva) veloce tra due piccoli argini in terra battuta. Il piccolo torrente dal nome misterioso sfociava, come oggi, in Arno all’altezza dell’odierna sede distaccata del Comune di Vinci. In realtà, all’epoca di cui stiamo parlando, all’incirca la metà degli anni ’60 dello scorso secolo, dall’epoca fascista in quell’edificio c’era la scuola elementare. Tutto attorno, ormai fagocitato da Via Filzi, c’era un muro che delimitava “l’ortino” dove le scolaresche venivano portate a fare la ricreazione. L’ortino conteneva anche tre o quattro alberelli e aveva il fondo sterrato. Dalla vicina casa colonica delle famiglie Cappelli era agevole udire, sempre alla stessa ore, l’urlio dei ragazzi che si scatenavano nei giochi più disparati. Il ponte, poi, che scavalcava il Rio dei Morticini aveva le spallette in muratura (se le portò via l’alluvione del 1966) che servivano, d’estate, da sedile per coloro che volevano riposarsi.

A sinistra del ponticello, guardando l’Arno, sorgeva un frantoio da cui, d’inverno, proveniva un acre odore di sansa durante la molitura delle olive. Poi, cominciava “la fila”, ovvero quel gruppo di case ancora esistenti, in gran parte costruite con “pillori d’Arno e calcina”, che arrivava fino al ponte che scavalcava l’Arno. A metà circa, non più funzionante da qualche anno, si notava la casa che era stata sede della caserma dei Carabinieri. Proprio davanti al ponte era ubicato un distributore di benzina e, quel che importava di più a noi ragazzi, l’edicola di “Parisino”. Posso dire di averci passato gran parte dei miei giorni di vacanza dai nonni in quell’edicola. Prima una semplice capannina, poi più moderna, per me, accanito lettore di fumetti, rappresentava l’eden.

Dall’edicola verso Limite iniziavano le villette stile vagamente borghese e quindi, la frazione di Spicchio. La cosa che più colpiva di questo raccolto gruppetto di case, era la piazza del Cavallotto che si trova, ancora oggi, a metà circa del borghetto. Tornando indietro e ripartendo dalla scuola elementare, le case verso l’agglomerato di Sovigliana, con la chiesa di San Bartolommeo posta a metà circa, erano veramente molto rare. Dietro a tutto questo, il Far West. Frutteti,campi seminati a grano o biada delimitati da filari di viti e pioppi, piccole vigne solcate da viottole che parevano perdersi verso l’infinito delimitato da Poggiarello e Poggio Adorno dove, d’estate, si andava a fare merenda o cena all’aperto. Le sole abitazioni erano quelle dei già citati Cappelli, della famiglia Pozzolini, con la sua ampia aia e gli annessi colonici che sorgeva accanto alla villa padronale proprietà della famiglia Busoni. Altre due case o poco più erano ubicate quasi davanti al cimitero di Spicchio, all’epoca molto più piccolo dell’odierno e che suscitava in noi ragazzi antiche paure, alimentate dai racconti dei nonni che a sera, davanti “al canto del foco” ce ne raccontavano di belle e di brutte tanto da renderci il dormire assai difficoltoso. Quei campi e quei frutteti, pesche, pere e ciliege il cui sapore oggi sogniamo alla grande, diventavano per noi ragazzi di volta in volta terreno dei giochi più sfrenati.

All’epoca non eravamo avvezzi a passare le nostre serate chiusi in casa davanti a un computer o a un videogioco. I nostri spazi volevano che la fantasia si scatenasse nel classico gioco al pallone, a nascondino ma anche ai cow boy e agli indiani, gioco molto gettonato, oppure, sempre seguendo i racconti che ci facevano genitori e nonni, alla guerra. Perché a quell’epoca dove la televisione ancora non aveva centinaia di (inutili) canali, genitori e nonni parlavano e molto con noi ragazzi. Erano loro la nostra “televisione” con i loro racconti veri o con le loro “novelle”. In quello spazio che pareva infinito, il destino di rappresentare nei giochi colline e montagne era stato demandato all’argine. L’argine, che era stata costruita per salvaguardare l’abitato di Sovigliana, da sempre più basso rispetto al ponte, dalle inondazioni, nasceva poco lontano dalle scuole elementari e, con andamento serpeggiante, finiva davanti al cimitero. Venne spazzata via prima dal terrapieno del futuro viale Togliatti poi da successiva urbanizzazione. Sulla cima dell’argine, correva un viottolo molto frequentato e, ai lati, nascevano delle canne utilissime ai contadini per costruire capanni dove tenere, di giorno, i polli o per “legare” le piante di pomodoro negli orti. Ovviamente, quei capanni per noi si trasformavano in Tepee di tribù di pellerossa sempre pronti a massacrare il Custer di turno. Su tutto questo, da primavera a estate, aleggiava il profumo dei frutteti in fiore che poi si trasformava in profumo dei frutti. Su quella terra benedetta da Dio nasceva di tutto: cocomeri, poponi, fagioli, pesche, pere di tutte le qualità, ciliege, albicocche, grano, perfino le barbabietole da zucchero che,poi, si andavano a portare a Granaiolo dove venivano trasformate nello zuccherificio oggi ridotto a un rudere cadente, chiaro esempio di abbandono italico di archeologia industriale. D’estate, la sera prima del mercato del giovedì, che allora si faceva, comela Fieradi settembre, sul Piaggione, ci si riuniva a famiglie e con amici e si faceva la “scelta” dei frutti e delle verdure migliori mettendoli in cassettine che, poi, al giorno dopo, assieme a polli e uova, sarebbero stati venduti. La filiera corta, all’epoca, non era solo una parola radical-chic ma si faceva davvero e i prezzi di tale filiera erano, non come accade oggi, accessibili. Con la scusa del “ prodotto genuino” o “biologico” oggi nei vari mercati che ogni tanto vengono organizzati ad hoc, come quello di Piazza della Vittoria, ti sparano certe cifre per un cavoluzzo smilzo….Tutto un altro mondo, dove “darla ad intendere” era molto più difficile in certi casi.Colpa del troppo benessere accumulato nel frattempo? Colpa dell’aver perduto per strada, complice la grande distribuzione, il sapore vero delle cose? Colpa dei men§ “semplici ma rivisitati”? Mah! Non lo so. Una cosa è certa: allora si mangiava forse meno, forse con meno variazione ma sicuramente meglio e non si aveva il problema (tutto mio personale) di stare attenti a non pranzare a cenare con qualche gamberone o simili causa gotta: semplicemente cosa fossero i gamberoni sfuggiva ai più.Finisce qui il mio ricordo, stuzzicatomi da alcune immagini uscite nel sito Dellastoriadempoli.

Oggi, di quel mondo, compresa la verde valle tra Spicchio e Sovigliana, non resta praticamente più niente. Va meglio? Va peggio? Ai posteri l’ardua sentenza.

Questo articolo ha 2 commenti

  1. Metà anni ’60, Rio dei Morticini: due bambine impavide ne percorrono il greto, sprezzanti della sferza dell’ortica nonostante i calzini calanti sulle gambe secche. Pur consapevoli della presenza di bisce terrificanti esplorano attentamente ogni tonfo ove l’acqua sia più ferma alla ricerca di uova di rana. Aprile è il tempo migliore per questa caccia ché le uova stanno ancora riunite nel loro filamento gelatinoso e son facili da prendere, al contrario dei maligni girini, che hanno l’argento vivo addosso e son prede adatte a cacciatori più esperti di queste due pischelle. Una è biondina e pallida,’come una veccia’ dicono i grandi, e vive in città, dall’altra parte dell’Arno, l’altra è un indigena e, seppur con qualche incertezza, guida la spedizione. Torneranno a casa con il loro barattolino di vetro pieno di uova e staranno a spiarne la crescita fino al giorno in cui i girini diventeranno dei minuscoli, incredibili rospetti neri.
    Quasi cinquanta anni fa.
    Abitavo in via Del Papa e per far prendere un po’ d’aria ai miei rospi, saranno stati una trentina, misi la vaschetta dove abitavano, scoperta, sul davanzale della finestra: le bestie salterine si precipitarono tutte giù dal terzo piano.
    Per un secondo fui devastata dalla perdita poi, immaginando quelli in strada che vedevano piovere rospi…quando ci penso mi metto a ridere anche adesso!

  2. Che dire? Grande è dire poco. Quanti ricordi! Attaccata alla caserma dei carabinieri, c’era la casa di mio zio Renato e zia Emilia che spesso mi invitavano in estate a fare il bagno in Arno. Però, caro Biscarini, fra la frutta ti sei dimenticato le “zatte”. Quelle proprio non si vedrannno e non si assaggeranno mai più!!Accidentalloro!

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