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Umberto Eco alla Domus Pacis – di Giuliano Lastraioli
Le già accese discussioni sull’ultimo libro di Umberto Eco (“Numero Zero”) mi fanno tornare in mente un’epoca remotissima nella quale ebbi modo di conoscere personalmente l’ora famoso autore in una occasione oggi inverosimile, per non dire impossibile.
Nell’agosto del 1952 avevo appena compiuto diciannove anni e sostenuto, con pochi punti sopra la sufficienza, i primi due esami all’università di Firenze, storia del diritto romano col professor Coli e diritto costituzionale col professor Salvioli.
A quei tempi il trenta lo prendeva soltanto Paolo Grossi, che sarebbe divenuto una celebrità mondiale prima ancora di finire in commenda alla Consulta.
Dalle nostre parti c’era poco da scialare e a San Miniato, quando il vescovo Felice Beccaro e il canonico Ciardi dovettero indicare un delegato giovanile di Azione Cattolica da spedire a Roma per un convegno di formazione a livello nazionale, scelsero me e mi impacchettarono alla volta della Domus Pacis di recentissima costruzione sulla via Aurelia Vecchia.
Non ricordo bene come ci arrivai. Rammento soltanto che, giunto a destino, fui ben lieto di incontrarci Ugo Zilletti, mio compagno di corso nella facoltà di giurisprudenza, che a sua volta era stato inviato a rappresentare l’arcidiocesi di Firenze.
Eravamo coetanei e di minor peso politico rispetto ai Pistelli, agli Speranza e ai Citterich che già navigavano verso alte sfere e che sul tesserino avevano più bolli di noi.
D’altronde anche lo Zilletti fece carriere: fu professore ordinario di diritto romano come allievo di Archi e addirittura vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, prima di cadere in disgrazia e di finire per un pò anche in galera.
A me gli intrighi politici e le guerre di carriera non sono mai piaciute e neppure allora nutrivo velleità in tal senso.
L’impegno era pulito ed esclusivamente ideale, come si conviene a tutti i fessi.
I comunisti hanno avuto le Frattocchie per indottrinare i loro pupi. I cattolici avevano la Domus Pacis per alimentare e ringiovanire le strutture della democrazia cristiana. Alla fine della partita risulta difficile intravedere differenze di stile, visti gli esiti confusionari che ne sono poi usciti.
Nelle pie intenzioni dei nostri occhiuti e rispettivi mandanti eravamo i cervelli più ricettivi da imbottire a dovere in vista di future tenzoni non solo dialettiche.
Dividevo la cameretta con un ragazzo di Perna, siciliano di Noto, che sicuramente sarà assurto ai massimi fastigi del potere dalle sue parti. Non ci siamo più visti nè sentiti, ma quel cognome l’ho letto più volte sui giornali.
Il convegno, diluito in tre giornate, seguiva regole quasi monastiche. Le lezioni inflitte all’uditorio erano davvero pesanti. L’Azione Cattolica attraversava in quegli anni, dopo i trionfi del ’48, un periodo di ripensamento e di crisi. Fra Gedda e Carretto non c’era sintonia e nelle sezioni si cominciava a sentire puzzo di zolfo. Avevano cominciato i veneti. Con Wladimiro Dorigo, ad assumere atteggiamenti riformistici sgraditi alla curia pacelliana.
E Dorigo pontificò per tutto il convegno, ben coadiuvato da don Arturo Paoli, un prete di Lucca in odore di sospette novità, che in seguito si sarebbe fatto anacoreta nei deserti del Maghreb.
I loro discorsi mi stralunavano. A quei tempi avevo letto già parecchio, ma non certo quel profluvio di scienza presupposto come ovvio dai dottissimi oratori. Gli interventi dei partecipanti erano infatti rarissimi e si limitavano per lo più alla richiesta di chiarimenti. C’era solo un ragazzo piemontese, certo Umberto Eco di Alessandria, che spesso si alzava e si permetteva acuti rilievi anche a suon di “Summa theologiae”.
Io e lo Zilletti non aprimmo bocca per tutto il corso dell’incontro, ma da bravi toscani decidemmo di sfottere i soloni con un cartellone murale (ancora non si chiamavano tazebao) dove i responsabili di così indigeste geremiadi venivano salacemente sbertucciati. Personalmente disegnai una vignetta che rappresentava don Arturo Paolo a braccetto di Umberto Eco con la scritta:
“Libera nos Domine”. Inutile sottolineare il successo dell’iniziativa.
Da quei giorni sono passati più di sessantadue anni.
Chissà se anche il professor Eco, dopo tanti ribaltoni e vicissitudini, ne ha qualche ricordo.
Non riesco più a trovare un vecchio numero di “Gioventù”, il settimanale della G.I.A.C., risalente all’epoca, dove una pagina è divisa a metà fra l’articolessa erudita di Umberto Eco e un mio scabro resoconto della festa del teatro a San Miniato.
E’ proprio il caso di ribadire: “ab uno disce omnes”.
Così vanno e si incrociano i destini della gente.
4 gennaio 2015 GIULIANO LASTRAIOLI
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Quest’articolo è molto simpatico:Raccontare cosa è stata l’Azione Cattolica potrebbe essere utile a questi smemorati di oggi.compresi alcuni scout tuttofare.C’è un piatto livellamento in giro e sospetto per cui dire forse abbiamo sbagliato per troppo idealismo è un modo per perdonarsi e farsi coraggio.