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Tiziano Tamburini, un empolese nel gelo della steppa russa del 1943 – di Paolo Santini

per gentile concessione di
Paolo Santini c/o Olmastrello.it          Tutti gli articoli di Paolo santini 

«È da molto tempo che mio nonno Tiziano, novantottenne empolese ancora autosufficiente nonostante la sua veneranda età, mi suggerisce di scrivere la sua vita militare in terra di Russia, ed io con molto piacere mi appresto a farlo». A raccontarci l’appassionante storia è Laura Tamburini, ma tanti sono i virgolettati, e Tiziano parla in prima persona raccontando con una lucidità e una precisione invidiabili, l’epopea della campagna di Russia, dalla partenza alla ritirata nel gelo della steppa. E leggendo tutto d’un fiato tornano alla mente le centomila gavette di ghiaccio di bedeschiana memoria e il sergente nella neve di Mario Rigoni Stern, solo per citarne due. Il “nostro” sergente nella neve è Tiziano, e non abbiamo voluto tagliare niente di questo racconto, proponendolo in versione integrale.

Tiziano Tamburini1filLa partenza per la Russia
Erano molti tra soldati di truppa, graduati e ufficiali, quando da Verona partirono per andare a completare l’organico del C.S.I.R. (Corpo Spedizione Italiano Russia) comandato dal generale Messe (il comandante del CSIR, il Generale di Corpo d’Armata Francesco Zingales, venne colto da malore durante il trasferimento e ricoverato a Vienna il 13 luglio 1941 e sostituito nell’incarico con il Gen. di CA Giovanni Messe il 17 dello stesso mese,  in comando fino al 10 luglio 1942 ndr) e composto da tre divisioni: la divisione Torino, la Pasubio e la Celere. Iniziarono il viaggio su una tradotta di dodici carri adibiti al trasporto animali, ma per l’occasione opportunamente modificati e attrezzati per trasportare militari. Dopo dieci giorni e  dieci notti, finalmente arrivarono a destinazione. Alla stazione di arrivo trovarono pronti gli automezzi sui quali li fecero salire e li portarono a Baskovski, caratteristico e grazioso paese russo situato nel bacino del Donetz, dove aveva sede il comando dell’82esimo reggimento fanteria della divisione Torino. Mio nonno fu assegnato all’undicesima compagnia, ed insieme ad altri soldati furono subito accompagnati al caposaldo “X”, il più avanzato del fronte italiano.

Sul fronte
Era l’aprile del 1942, ed il fronte in quel periodo si limitava soltanto ad attività di disturbo senza programmi di avanzamento, poiché era prestabilito di stare fermi in attesa dell’arrivo dell’ottava armata comandata dal generale Italo Gariboldi ( in comando dal 10 luglio 1942 – aprile 1943, ndr) . Comunque, seppure fermi, i contatti con i soldati russi non mancavano, ed ovviamente erano tutti pericolosi, perché contatti armati. C’erano poi altri rischi molto frequenti e pericolosissimi, quelli degli aerei russi che sfrecciando a bassissima quota scaricavano su di loro le mitraglie di bordo, causando molte volte morti e feriti. L’altro pericolo a cui i soldati andavano incontro, era quello dell’attività di pattuglia, che ogni notte dovevano fare nella cosiddetta “terra di nessuno”. Gli scontri a fuoco non erano rari, e fu proprio in uno di questi che mio nonno Tiziano fu colpito da una pallottola nemica alla coscia della gamba destra. Il dolore fu forte e continuo, e dalla ferita il sangue sgorgava piuttosto copiosamente. La ferita fu tamponata alla meglio, e mio nonno fu portato subito all’infermeria del reggimento per le prime necessarie medicazioni. Il giorno dopo venne trasferito al 239esimo ospedale da campo di Yasinovataya, diretto dal dottor Carlo Lippera di Fano. Qui rimase ricoverato fino alla completa guarigione. Fortunatamente la pallottola non aveva leso né il femore né altre parti importanti. Rientrato al caposaldo, il comandante tenente Guelfi, (fiorentino doc, come dice mio nonno) li teneva sempre al corrente di ciò che succedeva al fronte, ed in particolare in quello del loro settore. Mio nonno, graduato sergente, disponeva di una squadra fucilieri per le eventuali azioni di perlustrazione. Giunta l’ottava armata (Armir, ndr), il fronte riprese ad avanzare e vincendo la debole resistenza russa, arrivarono fino al fiume Don, obiettivo che dovevano raggiungere e nuovo fronte sul quale passare l’inverno ormai prossimo. L’armata italiana avrebbe ripreso le operazioni per un eventuale avanzamento solo all’inizio della primavera, ma purtroppo il comando russo era di ben altro avviso, e consapevoli di essere meglio equipaggiati e più abituati al freddo rispetto ai soldati italiani, avevano già disposto le loro divisioni corazzate lungo la riva sinistra del fiume, in attesa di attaccare. Infatti, verso la metà di dicembre, i russi attraversarono il Don completamente ghiacciato, con tutti i loro mezzi corazzati, scatenando una tremenda offensiva su quasi tutto il fronte italiano, investendo con la loro notevole potenza entrambe le divisioni Cosseria e Ravenna, le quali, non resistendo allo scontro, furono quasi completamente annientate. I russi, aperto questo grosso varco, iniziarono la manovra di accerchiamento, al fine di chiudere nella sacca altre divisioni, compresa la Torino. La potenza di fuoco russa era assai notevole. Tra le artiglierie, c’erano le famigerate Katiuscia, che paravano diverse serie di colpi alla volta, ed i cannoni dei carri armati, che anch’essi sparavano in continuazione. Non mancavano le pallottole dei fucili, che fischiavano da ogni parte, mentre nel buoi della notte, i bagliori degli spari illuminavano a tratti il campo di battaglia, trasformatosi in una specie di apocalisse.

Tiziano Tamburini 2filDal fiume Don alla ritirata. Gennaio 1943
All’arrivo sul Don il tenente Guelfi aveva scelto come posizione difensiva una collinetta ritenuta strategica e sulla quale, i soldati a disposizione del tenente Guelfi costruirono delle fortificazioni per meglio difendersi da un eventuale attacco nemico. Attacco nemico che purtroppo arrivò investendo la posizione strategica con una massiccia offensiva. Racconta mio nonno: “ Incitati dal nostro tenente, facemmo per giorni un’accanita resistenza, ma purtroppo le perdite iniziarono a farsi sentire anche nel nostro settore, indebolendo sempre di più la nostra eroica resistenza. Vidi il soldato Quaglierotti cadere a terra colpito a morte. Il mitragliere Figurella, intento a sparare contro il nemico, fu colpito in piena fronte da una pallottola, e cadde sulla sua mitraglia abbracciandola. Fu subito sostituto da un altro mitragliere e continuammo ancora la resistenza voluta dal nostro comandante. Poi, sotto la pressione sempre maggiore delle forze russe e le conseguenti perdite che continuavamo a subire, il tenente Guelfi ordinò la ritirata pensando di farla su posizioni arretrate. Ciò non avvenne, perché ritenuta troppo rischiosa, in quanto la manovra di accerchiamento russa stava per essere completata. Fummo fortunati, perché anche con l’ausilio di altre forze, riuscimmo ad aprirci un varco e a venir fuori dalla sacca di Nikolajewka, zona divenuta famosa per le enormi perdite subite.

Fuori dalla sacca. Da Nikolajewka a Empoli.
Venuti fuori dalla sacca iniziammo la lunga ritirata, accompagnati da una temperatura polare di 30-35° gradi sotto zero , per raggiungere, come prestabilito, la città di Dnepropetrovsk. Il primo giorno camminammo anche la notte per allontanarci più possibile dal fronte; tuttavia, stanchi, indeboliti e barcollanti a causa della necessità di riposo e di dormire, decidemmo di passare le notti successive nelle case russe, chiedendo ospitalità alle famiglie, cosa che quasi mai ci negavano. Eravamo in sei, sempre i soliti diventati poi amici che ogni giorno percorrevamo circa 40-45 chilometri, per poi cercare altre famiglie che ci ospitassero per la notte successiva. In queste case abbastanza riscaldate, dormivamo per terra con lo zaino sotto la testa per cuscino. I rifornimenti dei viveri si facevano nei nostri punti base, ma in mancanza di questi approfittavamo anche di quelli tedeschi, che non si rifiutavano di fornirceli. Durante il cammino, nonostante i possibili accorgimenti, non potevamo evitare che il passamontagna di spessa lana, causa il nostro respiro, si indurisse creandoci sulla faccia una lastra di ghiaccio, mentre sulle palpebre si formavano tanti ghiaccioli che dovevamo continuamente toglierci perché ci ostacolavano la vista. Una mattina, mentre camminavamo isolati rispetto agli altri, venimmo fermati da tre soldati che credemmo tedeschi ma che invece erano tre partigiani russi travestiti, in quanto sopra i loro abiti civili indossavano un cappotto tedesco. Venimmo portati in una stanza di un fabbricato diroccato. I tre finti soldati tedeschi, armati di Parabellum, discutevano continuamente fra di loro, pronunciando spesse vote la parola “caput”, che conoscendone il significato, ci faceva rabbrividire. Trascorsa circa un’ora all’interno della stanza dove eravamo rinchiusi, quello che sembrava essere il capo dei tre partigiani russi, uscì dalla stanza. Noi ci guardammo in faccia, atterriti, pensando al nostro probabile triste destino. Il caporale Zanolla di Bari, che tra noi era colui che meglio aveva assimilato la lingua russa, tra le lacrime implorava i due partigiani a lasciarci andare, senza tuttavia ricevere attenzione. Passata un’altra buona mezz’ora il presunto capo ritornò, e dopo poche parole scambiate con gli altri due disse: “Italiaschi nemà caput. Aprirono la porta e ci lasciarono andare. Immaginate la nostra gioia per lo scampato pericolo! Da quel momento ci mettemmo in marcia di buon passo, e i 130 chilometri che ci separavano da Dnepropetrovsk furono percorsi in una sola tappa.

Tiziano Tamburini 3filDa Dnepropetrovsk a Minsk
Per la riorganizzazione di noi sbandati, rimanemmo in questa grossa città diversi giorni, dopodiché lasciammo l’Ucraina per raggiungere Gomel, grande centro della Bielorussia. Per il trasferimento, comandati da un tenente, usufruimmo di un automezzo adibito al trasporto di soldati. Quando cominciava l’imbrunire, come al solito facevamo tappa ed ogni soldato si arrangiava a trovare una casa russa che offrisse ospitalità per la notte. Io e il sergente di artiglieria Rueca che avevamo dormito nella stessa casa, la mattina ritardammo all’appuntamento e il tenente con gli altri soldati e l’automezzo erano già partiti, lasciandoci a piedi e senza viveri. Considerata la critica situazione in cui ci trovavamo, decidemmo di andare al comando tappa tedesco più vicino per chiedere viveri. Tra gli altri ci trovammo un maresciallo che capiva abbastanza bene l’italiano e, compresa la nostra situazione, ci offrì una densa bevanda calda, una specie di cioccolata in tazza. Poi ci rifornì di viveri per alcuni giorni, sigarette comprese, e ci fece salire su una camionetta che ci portò alla stazione ferroviaria più vicina per poi raggiungere in treno la città di Gomel. Purtroppo i treni non arrivavano mai, e così decidemmo di incamminarci a piedi e cercando, ovviamente, anche mezzi di fortuna. Fu una mezza “tragedia”, comunque finalmente dopo parecchi giorni giungemmo a Gomel, subendoci un forte sermone da parte dei superiori, per il nostro notevole ritardo. Anche qui facemmo una lunga sosta per una nuova sistemazione dei reparti. Tuttavia, i noiosi quanto disagiati trasferimenti non erano ancora finiti. Ci fecero salire su un’ulteriore tradotta in pessime condizioni e ammassati come sardine, tanto da farmi ricordare con una certa esattezza quella simile scena vista nel film “Il dottor Zivago”, ci portarono in una piccola città della quale non ricordo il nome, ma certamente molto a nord e vicini alla città di Minsk”.

Il ritorno a casa
I giorni trascorrevano lenti e noi non sapevamo quale destino ci attendesse. Nessuna informazione giungeva dai nostri comandanti, ed il timore di non essere rimpatriati prendeva sempre più consistenza. Ed invece, a dissolvere definitivamente i nostri dubbi, arrivò finalmente la notizia ufficiale del nostri rimpatrio. Indescrivibile la nostra gioia ed il nostro entusiasmo. Eravamo al maggio del 1943, e questa volta, saliti sull’ennesima tradotta più comoda e tanto desiderata, iniziammo a ritroso il lungo viaggio di ritorno, che attraverso confini e terre straniere, ci portò finalmente sulla tanto amata Italica terra.

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