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Storie d’ospedale – di Roberto Taviani

Ricordi di Sala Operatoria e altro! Siamo al 1969. Io giovane ,fresco di laurea, pieno di speranze e perché no di ottimismo approdo in Ospedale, in quella che sarebbe stata la mia prima casa per lungo tempo.

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Spedale Vecchio, corsia interna, 2008.

L’ambiente di lavoro, la vecchia Chirurgia del Prof. Tuci in Via Paladini. Sembra strano che in un ambiente così “vetusto” fosse stato possibile ricavare una sala operatoria così “moderna”, così efficiente, quasi avveniristica per quei tempi.
Era stata fatta per l’arrivo del “Tuci”, e sicuramente c’era del suo. Ne aveva viste di cose nel mondo. Era stato in Svezia, allora all’avanguardia per quanto riguardava l’edilizia ospedaliera. Aveva frequentato a Milano “l’Istituto contro il cancro”, allora si chiamava così, creatura del Professor Bucalossi, samminiatese doc, ove muoveva i primi passi un giovane Umberto Veronesi, che tra l’altro “il nostro” aveva conosciuto a Pisa.

Insomma questa sala era un posto sacro, il sancta sanctorum. Bisognava fare attenzione a come ci si muoveva, a come si parlava, quasi..a come si respirava. L’unico che sbraitava come voleva era…naturalmente “Il Tuci”. Solo Lui poteva liberamente “nominare il nome di Dio invano”. Si legga “moccolare” a suo piacimento.

Novita: il nuovo libro di Roberto Taviani:

Come non ricordare le mie lunghe sedute, si fa per dire perché ero in piedi, immobile per ore, attaccato ad un divaricatore. Quando cercavo i allungare il collo per vedere qualcosa:”Ettore non ti muovere, non c’è bisogno che guardi,…alla fine te lo racconto io”! Era un metodico, maniacale, pignolo è dire poco . La pulizia era sacra. Va capito, si era formato in epoca pre antibiotica. La sepsi era il pericolo numero uno. I gesti sempre gli stessi, anche le frasi. Se un telino era messo un centimetro fuori posto, te lo faceva rimettere. La luce poi. La lampadona che illumina il campo operatorio, si chiama “Scialitica”. Doveva essere sempre col “fuoco” centrato al meglio.

Secondo Lui. L’unico infermiere che secondo Lui la sapeva maneggiare era Ivan. Nei momenti di difficoltà, sentivi urlare…ho bisogno di vederci bene, voglio la luce a fuoco giusto. Chiamate Ivan. Che magari era in reparto, oppure..a casa, o in ferie. Ed agli altri infermieri diceva: nei momenti liberi allenatevi a centrare la luce con una scatola di cartone. La famosa scatola di cartone. Però bisogna ammettere che con le sue manie, le sue fisse era un’ottima chirurgia per quei tempi.

Con mortalità pressoché assente e complicazioni post operatorie bassissime. L’attenzione poi al paziente operato era massima. La mobilizzazione precoce obbligatoria. Il primo giorno post operatorio il paziente veniva fatto alzare,diciamo pure letteralmente buttato giù dal letto, anche dopo interventi complessi. Era una faticaccia, sia per il paziente, che per il personale, però embolie zero. E pensare che allora c’erano posti ove un operato d’ernia veniva tenuto a letto per almeno una settimana.

Si, la prevenzione delle flebiti era molto tenuta in considerazione. I famosi cubi in fondo al letto contri i quali il paziente doveva puntare i piedi, le fasce elastiche, ed appena arrivate le nuove eparine. Un’altra fissa era lo spazzolino ed il dentifricio. L’igiene orale per Lui era sacra. Sembra che in un passato molto remoto, quando la cura dei denti era fantascienza , specie nelle campagne, l’igiene del cavo orale non era molto presa in considerazione. Si diceva che avesse perso un paziente per una grave infezione del cavo orale nel post operatorio , complice la disidratazione e la debilitazione del paziente.

Da allora, spazzolino e dentifricio, sennò non entravi in ospedale. Come non ricordare la mattina nei corridoi quelle processioni di pazienti ingabbiati in quei grossi “girelli”, con attaccata asta delle flebo, sacchetto per il sondino e per il catetere. I gesti degli Aiuti ed Assistenti poi. Per gli assistenti naturalmente dopo 2-3 anni almeno, per i più fortunati,perché prima..non si potevano proprio muovere. C’erano “i sacri testi”. Il “Mondor” era di un autore francese, mi sembra Henri Mondor, un trattato di patologia chirurgica insuperabile.

Il “ Gallone” quasi quasi lo leggevi per passatempo, aneddoti, esperienze, storielle, per rendere più interessante la lettura. Poi c’era “La Clinica Chirurgica del Nord America”. Aggiornatissimo, all’avanguardia per allora. Nuove tecniche. Piaceva tanto al Prof. Guerri. Ed a proposito di gesti, cioè di come tenere le mani c’era un libriccino in francese:” Gestes et procedes de la chirurgie…”.

Ci teneva come le cose sante. Appena arrivava un nuovo assistente glielo dava. Andava quasi imparato a mente, cosicché quando dopo anni potevamo, muoverci, si sapesse come fare. Qualcuno cercò anche di fregarglielo! Rischiò l’espulsione. Un’altra figura di rilievo, era una specie di meccanico, con la tuta, lavorava nei sottosuoli dell’ospedale, mi pare si chiamasse Vasco.

Quando al “nostro” veniva l’idea di modificare “un ferro” chirurgico: chiamate Vasco. Lo faceva venire in sala, gli faceva mettere un grosso camice sulla tuta, le soprascarpe naturalmente, mascherina e cappellino, e gli mostrava sul campo cosa voleva da lui. A volte ne uscivano dei ferri interessanti. Il materiale mono uso non esisteva proprio. Le lame venivano fatte riarrotare dall’arrotino.

Le siringhe erano di vetro e venivano sterilizzate nell’autoclave. Gli aghi, col mandrino, e per averne uno diritto ed appuntito, bisognava cercarlo nella spassetta. I cateteri di gomma rossa,dura, dopo l’uso venivano lavati, c’era una sorta di marchingegno che veniva attaccato alla cannella, poi tante deviazioni nelle quali venivano attaccati i cateteri per farci passare l’acqua corrente all’interno. Poi venivano messi in una sorta di contenitore, si chiamava la “stufetta dei cateteri” alla rinfusa, con delle pasticcione di formalina.

Quando se ne aveva bisogno si cercava quello che ci pareva adatto, si lavava con della soluzione fisiologica sterile e si adoprava. A proposito di catetere voglio raccontare un aneddoto, di tempi ancor più lontani. Di un’epoca che non ho vissuto, ma ho sentito raccontare. Quando gli interventi sulla prostata non venivano eseguiti, o rarissimamente e con alta mortalità, i prostatici dovevano convivere col catetere. Se lo portavano dietro ed all’occorrenza se lo mettevano da soli. Lo tenevano..nel cappello, arrotolato. I fili da sutura sintetici, sono arrivati dopo. Allora tutto naturale,lino , seta e catgut.

I guanti naturalmente, specie quelli che si adopravano per medicazioni, esplorazioni e piccoli interventi, venivano rattoppati. Come le camere d’aria delle biciclette. Mi sembra ancora di vederla “La Busi”, la ferrista storica, una delle più esperte, bolognese verace. Intenta a rattoppare i guanti nella presala operatoria. Allora le ferriste si formavano sul campo.

Quando a Lui sembrava che una avesse disposizione, la ammetteva a frequentare la sala e piano piani,si formava. Le garzine da medicazione!. Le garzine di medicazione venivano tagliate e ripiegate dalle pazienti. Nei reparti vedevi le pazienti ormai convalescenti in poltrona a piegar garzine. Ora sarebbe reato. Sfruttamento di manodopera. La “tricotomia”, cioè la depilazione delle aree sede di intervento era un rito.

Veniva eseguita da un “infermiere esperto” la sera prima, col rasoio a mano libera. A volte qualche sgranatura, qualche micro taglietto era possibile. Ed allora la mattina in sala:”chi l’ha fatta questa tricotomia.” E l’artefice veniva segnato sul libro nero. E’ ovvio che aveva ragione Lui. Anche un micro taglietto poteva essere fonte di ingresso di germi.

Tanto mi ero convinto della importanza della “tricotomia” e di come il Chirurgo volesse che fosse eseguita da mani di sua fiducia, che anch’io, in tempi recenti, come paziente, ci son cascato. Non molto tempo fa ho dovuto sottopormi ad un intervento per ernia inguinale. Chirurgo non poteva che essere un vecchio amico e collega di quei tempi, Domenico Bombardieri. Casa di cura a Lucca. Ora ci si ricovera la mattina stessa dell’intervento. Insomma arrivo senza tricotomia fatta.

Quando l’infermiera mi vien a prendere per andare in sala, Le fo presente che..non sono depilato. O codesta fa Lei, come se fosse la cosa più naturale del mondo arrivare con la tricotomia fatta. Per uno poi che per 30 anni aveva visto fare la tricotomia solo da chi autorizzato del chirurgo. Vista l’entità del problema provo a dirLe, mi procuri per favore un rasoio che provo da me.

No no allora provo io. Non nego di aver temuto per il volatile che era li rannicchiato tra i peli che dovevano essere tagliati. Poi le battaglie del “Nostro” col Provveditore su dove andavano acquistati i presidi sanitari. Non si trovavano mai d’accordo.Altri tempi!! Eppure torno a dire ottima casistica, mortalità assente, complicazioni post operatorie bassissime. Il Capo, ottimo chirurgo, gran figlio di buonadonna, però ci sapeva fare. Equipe affiatata, disposta a sopportare, che ce la metteva tutta…..continua….

Questo post ha un commento

  1. Buongiorno, confermo il meccanico/fuochista, con la tuta, che lavorava nei sottosuoli dell’ospedale, si chiamava Vasco Beconcini.

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