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Il grido d’allarme – di Tommaso Mazzoni

↖ Collana su Ferruccio Busoni – di Tommaso Mazzoni

“L’arte è il grido d’allarme di coloro che vivono in sé il destino dell’umanità: che non se ne appagano, ma che si misurano con esso; che non servono ottusamente il motore a cui si dà il nome di ‘oscure potenze’, ma si gettano nell’ingranaggio in movimento per comprenderne la struttura…”.

ARNOLD SCHÖNBERG [1]

Aforisma, dalla Rivista DIE MUSIK,

Berlino, 1909/10.

 


a cura di Tommaso Mazzoni

IL GRIDO D’ALLARME

tratto da “SCRITTI”

(1952-1989)

 

PRESENTAZIONE

Ogni decisione, ogni azione che viene presa, ha, per il suo nascere, un impulso che fa scattare una carica latente che, al momento che essa viene esplicitata, e soltanto allora, assume valenza formale.
Debbo ad un’appassionante ricerca su di una densa, annosa documentazione, l’idea di estrarre il titolo da uno scritto di Arnold Schönberg.
In questa raccolta ho incluso gli schizzi, i ritratti da scene, da impressioni, da valutazioni di spaccati di un mondo pur presente, vissuto giorno per giorno, ma a cui, da tanto siamo abituati al loro trascorrere, non si fa solitamente quasi mai caso.
Ad un tratto, un determinato particolare, un inatteso pizzico ad una certa corda – a quella determinata corda del sentimento – fa risuonare in te una viva emozione(2), da cui può scaturire di tutto, dal sorriso al pianto; dal desiderio di distruggere l’universo all’esaltazione di esso quale unica cosa indispensabile, canovaccio esistenziale, su cui, pur se spesso tirati da fili di un immaginario burattinaio, ti senti comunque protagonista; dallo spavento irrefrenabile, alla decisa incontrastabile sicurezza che ti senti dentro, come corazzato da falange composta da mille impenetrabili làmine.

In questo vivere e non vivere, in questo agitarsi a mezzo fra oppressione ed esaltazione, fra bàratro e cime celestiali, ne risorte la sospensione della tua consapevolezza, del tuo renderti conto che esisti e che, volente o nolente, devi o ti senti, o ti esalti a vivere con a fianco la morte e la tragedia, o lo splendore della piena, fulgida vitalità.
L’artista sente tutto questo intorno a sé, tutto un mondo, un bruttissimo e bellissimo mondo che gli si agita intorno, o in cui egli stesso si agita, non fa differenza: è incapace, forse – ma più probabilmente non lo vuole -, di avvicinare gli estremi nel timore dell’appiattimento vuoto e inespressivo di quelle manifestazioni che gli consentono il toccare con mano ciò che ad altri è negato, soffrendo, eppur beandosi, di quello stato di dolore e di godimento, ma anche di privilegio: il potere radiografare l’inapparente.

Ma purtroppo ci sono anche i contra. E, a questo proposito, consentitemi un piccolo ma indicativo inserimento: è una delle non infrequenti operazioni che mi piace fare sui miei libri che, grazie a non averne destinato la pubblicazione, amo definire perciò sempre aperti. Dello scrittore Hermann Hesse (1877-1962) ho avuto il privilegio di leggere qualche suo lavoro nel settembre 1996. Ci dice tra l’altro: “Un artista decente è destinato ad essere infelice nella vita. Ogni volta che ha fame e apre il suo sacco trova solo perle!”.

Piuttosto ad hoc, che dite?

Il suo grido – il grido d’allarme di cui si diceva -, stimolato da tutte le cose che vede, che in ogni caso avverte, e di cui non riesce a darsi una spiegazione sufficientemente soddisfacente, suscita quel desiderio di volersi gettare nell’ingranaggio in movimento, di cui parla appunto il nostro musicista.

L’insoddisfazione, o la soddisfazione del vivere lo fa gridare nell’avvertire in sé forze ineluttabili, da ascoltare, da ponderare, da valutare, ma da cui non vorrebbe sentirsi trascinato in quanto lui intenderebbe essere il protagonista, ma che non lo è, che non può esserlo.

Questo vivere in emulsione con la realtà, lo rende perciò desideroso di gettarvisi in mezzo e, dalle sensazioni che ne scaturiscono, butta giù squarci che, tentando poi di ricomporli come un puzzle cui manchino le principali e più evidenti tessere, s’illude di capirci ugualmente qualcosa…

Mai, i più importanti frammenti, le principali tessere di questo puzzle gli si pareranno davanti, temo(3). Ma ciò non toglie che non si senta e non debba far sì da tentare di capire, di apprezzare o di disprezzare; di abbattersi o di esaltarsi per tutto ciò che, strada facendo, avverte, analizza, confronta, ma da cui, quale ben congegnata e tensioattivata(4) emulsione, appunto, mai potrà sortire la cercata auspicata soluzione.

Da come prima mi sono espresso, chi mi legge potrebbe essere portato a supporre che io possa pensare a un Tommaso-artista.

Non dico , ovviamente; ma non posso neppure buttare lì recisamente un no senza prima avere esaminato la cosa con una certa calma e senza prima avere articolato il significato da darsi al sostantivo artista.

Il mio distinguo è perciò un “dipende”.

Se mi si deve considerare quale creatore di opere geniali, siamo in ogni caso assai lontani: molto, ma molto lontani da tutto ciò.

Viceversa, se, come ho avuto modo di esprimermi altrove, mi si considera invece un essere che vive dentro quella grande vetrata (che, peraltro, è appunto il titolo di un mio scritto inserito in questo libro), quel medesimo grande spazio immaginario in cui l’artista si dibatte e in cui ravvisa affinità, espressioni di volti familiari; in cui si sente di capire chi gioisce e chi piange; chi si abbatte e chi lotta; chi rimane soffocato da quell’immane macigno esistenziale e chi lancia il suo grido, se non altro per provare a sé stesso che c’è, e sbatte, svelto, le sue ali non tanto per volare, ma per sentire il fruscio di esse e il sibilo dell’agitarsi dell’aria intorno a sé a riprova che c’è, che esiste, che vive… oh sì, allora consideratemi pure un artista: che differenza c’è, intimamente, l’esserlo o non esserlo?

Non potendo permettermi, per il materiale con cui mi presento, di suscitare forti emozioni o, per altri scritti ancora, di rivelare quanto già non sia noto ai più, non mi esclude tuttavia dal provare sensazioni, sentimenti, e di tentare di esprimerli a mio modo, per coloro che forse si trovano in sintonia con quella che è la mia angolazione del vedere le cose, con il mio stile di vita e di interpretare la realtà: insomma con il mio mondo al quale non voglio rinunciare, pur permettendomi, con determinata svelata realtà, accostamenti indegni o quantomeno azzardati.

Schönberg e Mazzoni. Già…

Può fare sorridere il binomio, non certo per il tanto nomine che comincia con la “S”, tuttavia, nelle poche parole espresse dal grande musicista viennese (e che ho voluto ricordare in testa a questa mia “Presentazione”), ho trovato quanto non possa riuscire io a dire in mille e una parole.

Là, vi è l’arte; qui, troverete invece, cosparso talvolta da sprazzi anelanti, soltanto il doloroso e nudo lungo grido.

Ma che forse una mamma trova meno dolore per il già anziano figlio morente piuttosto che per la morte di un figlioletto appena nato?

Non importa se consideriamo Schönberg questo citato già anziano figlio morente o il figlioletto appena nato: è un figlio della medesima natura di cui anch’io sono figlio; di cui tutti noi siamo figli. Chi si esprime e chi no; chi ha e mantiene nascosto in sé la tragedia umana e chi, talvolta in atti di ribellione, vuole esprimersi, non intendendo supinamente subire.

Chi lo dice e chi non lo dice. Si potrebbe riassumere così tutta questa mia tiritera, ma ognuno vive la sua gioia o il suo dolore e l’alternanza di essi. Volente o nolente.

Giorno e notte, alto e basso, largo e stretto, pace e guerra, e così via… Sono i contrapposti-limite, e anche, se volessimo ricorrere al modo di esprimersi di un musicista, accordi maggiori e accordi minori, sempre però con tutte quelle sfaccettature e gli “accidenti”, musicali e non, che s’incontrano strada facendo.

C’è chi è sensibile, ma che riesce a stemperare nella quotidianità, beato lui, tutte le proprie angosce, e c’è chi, non essendo estroverso da scaricare passo per passo la sua carica emotiva, arrivato ai vari stadi di accumulamento, tende, a un certo punto, a esplodere.

Schönberg, appunto, non dice che sono gli artisti a lanciare il grido, ma si esprime dicendo che è l’arte “il grido d’allarme di coloro che vivono in sé il destino dell’umanità(5)”.

Dopo questa precisazione, forse doverosa per evitare l’interpretazione di un presumere di cui non ho inteso avvalermi, v’invito alla lettura di queste mie pagine.

Non ho usato, od almeno non ho inteso di usare mai l’artificio: così come mi sento dentro, nelle svariate circostanze, lo porto fuori, vorrei dire lo porgo con modestia e amicizia a chi si appresti a gettare un’occhiata introspettiva in quella complessa, pure se non sempre agevolmente perscrutabile anima di un loro compagno di quell’avventura che è la vita dell’uomo, di cui peraltro, al pari dei pullulanti fenomeni che lo circonda, se ne sa così poco; troppo poco.

Empoli, lunedì 8 aprile 1996 11:42.

TOMMASO MAZZONI – IL GRIDO D’ALLARME.

Per gentile concessione

 


Note e Riferimenti:

[1] Arnold Schönberg (Vienna 1874 – Los Angeles 1951).

Della struttura di cui Schönberg fa cenno, all’epoca e anche in seguito, si sono occupati in modo approfondito, e persino sperimentalmente, alcuni teorici, linguisti, psicologi, antropologi e filosofi “moderni”, pure se non sempre ricorre un tale preciso termine. Tra gli altri, mi permetto di ricordare (non rispettivamente, seppure con il dovuto rispetto!) Ferdinand de Saussure (1857-1913), Claude LéviStrauss (n.1908), Jacques Lacan (1908-1981), Michel Foucault (1926-1984).

Come ricorderete, un omonimo di quest’ultimo, JeanBernard-Léon Foucault (1819-1868), ideò e fece eseguire il noto esperimento del pendolo, che questo fisico francese chiamava però giroscopio, con cui, nel 1851 (Léon aveva quindi 32 anni), al Pantheon di Parigi, si poté avere la prima prova sperimentale della rotazione terrestre, rimasta ad oggi, a parte ogni dimostrazione teorica, dice Galluzzi (l’attuale direttore dell’Istituto e Museo della Storia della Scienza di Firenze), l’unica dimostrazione “visiva”.

Aggiungo, oggi venerdì 27 giugno 1997, che alcuni giorni or sono, ed esattamente a tarda sera di giovedì 19, ho personalmente assistito ad un’ulteriore dimostrazione di questo esperimento, allestito sotto la cupola del Brunelleschi, nella bellissima Cattedrale di Firenze. Hanno tenuto le loro conferenze noti scienziati e scrittori, quali il ricordato Paolo Galluzzi, Umberto Eco – autore fra l’altro di uno scritto intitolato, appunto, «Il Pendolo di Foucault» – Paolo Brenni, Alberto Righini, Franco Pacini, Roberto Casalbuoni, Giuliano Toraldo di Francia e Mario Primicerio, l’attuale Sindaco di Firenze. Erano presenti altre numerose personalità, fra cui il Direttore del Conservatoire des Arts et Métiers di Parigi, l’attuale Arcivescovo di Firenze Silvano Piovanelli e Don Timothy Verdon, Delegato Arcivescovile per il VII Centenario di S. Maria del Fiore.

Se a qualcuno di voi potesse interessare qualche altro particolare al riguardo del “Pendolo di Foucault”, vi riporto una descrizione apparsa nel n. 77 della Rivista Focus® (del marzo 1999). Ma se le precisazioni che seguono non fossero di vostro interesse, potete passare al paragrafo successivo (e cioè a “Ritornando ai più sopra ricordati pensatori”, ecc.):

“Si tratta del grande pendolo sferico (un cavo di oltre 60 m al quale era attaccata una sfera di 28 kg) che fu appeso nel 1851 da Léon Foucault (1819-1868) alla cupola del Panthéon di Parigi, per dimostrare con un esperimento l’esistenza della rotazione terreste. Se infatti la terra fosse ferma, il pendolo dovrebbe tracciare un’unica linea sul pavimento coperto di sabbia. Nel corso dell’esperimento, il fisico lasciò oscillare il pendolo e vide che disegnava delle linee sotto di esso. Poiché il piano di oscillazione libera di un pendolo non cambia nel tempo, le linee stavano a indicare che era il terreno sottostante a muoversi. Foucault dimostrò che l’angolo che raggruppava queste linee era da mettere in relazione alla latitudine del luogo. All’Equatore, infatti, l’angolo è nullo e al Polo Nord è di 360°. In Italia l’angolo è di 254°. Perché? Si pensi al pendolo al Polo Nord: la Terra ruota sotto di lui facendo in 24 ore un giro completo, dando l’impressione che sia invece il pendolo a ruotare. All’Equatore la rotazione “non c’è” perché il piano del pendolo è perpendicolare all’asse di rotazione terreste”.

Ritornando ai più sopra ricordati pensatori, mi piace ricordare Wilhelm Wundt (1832-1920) e il suo allievo Edward Bradford Titchener (1867-1927), Jean Piaget (1896-1980) e, a suo modo per le sue amene espressioni – ma non da darne certo senso riduttivo -, il recentemente scomparso Louis Althusser (1918 1990); …e diversi altri di cui avrei intenzione di personalmente continuare ad occuparmi in seguito. Per me sono tutte cose interessantissime, che – ove non foste già degli esperti – mi prendo la licenza(!) di consigliare anche a voi.

Ma, per chi possa un po’ interessare, intendo accennare alcuni brevi e quanto mai succinti tratti del musicista a cui ho dedicato, in certo qual modo, questo mio piccolo lavoro.

Figlio di un modesto commerciante ebreo, dalla madre, dotata di buona cultura musicale, a otto anni ebbe le prime nozioni musicali insieme al fratello Heinrich (che divenne poi un rinomato basso e raggiunse fama presso l’Opera tedesca di Praga). Arnold, avviato alla scuola media, fu costretto ad interrompere gli studi a quindici anni per la morte del padre; a diciassette entrò come commesso in una banca viennese, ma continuò gli studi musicali da autodidatta. Conobbe il musicista concittadino Alexander von Zemlinsky, compositore e direttore d’orchestra (maggiore di due anni), da cui ebbe anche consigli e lezioni d’armonia e contrappunto. Von Zemlinsky (Schönberg aveva 21 anni) lo fece assumere con l’incarico di direttore di una Corale, consentendogli in tal modo di lasciare il lavoro di commesso bancario. Aveva 23 anni (1897) quando fu eseguita la sua prima composizione in pubblico, che fu, per l’esattezza, il Quartetto in Re maggiore.

Si susseguirono poi composizioni di cui tuttavia vi risparmio descrizioni ed i riferimenti ambientali, che furono accolte con applausi e anche con fischi, come può accadere ad ogni artista.

Determinanti furono certe conoscenze e incontri in campo musicale, come Richard Strauss (di dieci anni più vecchio), che gli procura un posto al Conservatorio Stern di Berlino dove si era trasferito in seguito al matrimonio di Arnold con Mathilde (sorella di Zemlinsky). A Berlino si era affiancato allo scrittore e uomo di teatro Ernst von Wolzogen (più vecchio di 19 anni), fondatore (1901) del famoso cabaret satirico, artistico e letterario, Überbrettl, di cui Schönberg era direttore d’orchestrina.

Nel 1903, ritornato a Vienna, altro incontro importante con Mahler il quale gli fece eseguire, a poca distanza di tempo, due sue composizioni (entrambe accolte da fischi).

Ma un lavoro ultramoderno difficilmente trova immediati seguaci e sostenitori; e inoltre Schönberg non si limitava a percorrere campi inesplorati soltanto musicalmente: impostò anche un’avanguardia letteraria e artistica in genere. A questo proposito, mi piace ricordare che incontrò anche il pittore moscovita Vasilij Vasilevich Kandinskij (maggiore di otto anni), dato che Schönberg si occupava anche di pittura (i suoi quadri li intitolava Visioni).

Continua a seguire la sua strada, quella diretta verso la atonalità (suoni non retti da tonalità ben delineate), che Schönberg definisce pantonalità.

Sulla rivista “Il Cavaliere Azzurro” (Der Blauer Reiter), da lui fondata nel 1911 insieme ad altri artisti fra cui lo stesso Kandinskij, pubblicò nel 1912 un importante articolo dal titolo Il rapporto col testo, in cui vengono affermati per la prima volta i princìpi estetici ed etici dell’espressionismo.

Sue opere fra le più importanti, oltre a Verklärte Nacht op. 4 (Notte trasfigurata) e un Poema sinfonico per sestetto d’archi (1899), sotto l’influsso delle musiche di Richard Wagner e di Gustav Mahler, possono essere ricordate: Pelleas und Melisande op. 5 (1902-3), Kammersymphonie op. 9 (1906) e i tre pezzi per pianoforte op. 11 (1908-9), tappe importanti verso quel processo di dissoluzione della tonalità cui prima accennavo e che porteranno prima all’espressionismo e più tardi alla dodecafonia.

Lasciatemi aprire questa parentesi, perché vi riporto una cosa che a me sembra proprio bellina. Ma sapete come hanno chiamato la dodecafonia quelli che, evidentemente, non si sentono di condividere questo genere di musica? Attenti però alle sillabe, nel leggere la prossima parola: dodecacofonia! (Non si può essere sempre seri seri, via…).

Ma non posso non ricordare anche Gurrelieder, la cui composizione attirò l’attenzione di Richard Strauss (di dieci anni più vecchio) e anche Pierrot lunaire, op. 21 (1912), la sua opera più famosa, che può essere considerata il “manifesto” dell’espressionismo musicale, imprimendo alla musica contemporanea – al pari della Sagra della Primavera di Igor Fedorovic Stravinskij, seppure in direzione antitetica (Stravinskij più “dionisiaco”; Schönberg può definirsi più “apollineo”, nonostante i pur forti contrasti tonali) – una svolta decisiva: opera-denuncia della crisi dell’uomo come soggetto, intuizione-denuncia, perciò, di una società che sta precipitando nella guerra.

Durante la prima guerra mondiale interrompe ogni attività, richiamato per due volte nell’esercito austriaco.

Altro punto importante è l’esigenza, in Schönberg, di riorganizzare i mezzi formali della costruzione musicale. Nasce in lui, per questo, l’idea di un nuovo “metodo per comporre mediante 12 suoni che non stanno in relazione che fra loro”, ossia la dodecafonia, la cui prima integrale applicazione Schönberg l’attua nella Suite op. 25 per pianoforte (1921-23).

Nel 1923 muore la sua prima moglie; l’anno successivo si sposa con Gertrud Kolisch, sorella del violinista Rudolf, suo discepolo ed esecutore, che avrà una gran parte nella diffusione delle sue opere, insieme a Hermann Scherchen.

La moglie Gertrud scrisse poi anche un libretto per un’opera musicata da Schönberg, che fu anche regolarmente rappresentata.

Un altro pittore, ma anche scrittore (di dodici anni più giovane del nostro grande musicista), cioè Oskar Kokoscka (1886-1980), britannico di origine austriaca, nel 1924 esegue un ritratto di Schönberg. Kokoscka, per inciso, si era avvicinato anche al già ricordato gruppo Der Blaue Reiter, il Cavaliere Azzurro.

Nel 1925 Schönberg si trasferì a Berlino dove, morto Ferruccio Benvenuto Busoni (Empoli, 1866 – Berlino, 1924), fu chiamato a occupare la cattedra dell’Accademia Statale di Musica.

L’opera più avanzata e complessa scritta da Schönberg fino a quel momento porta il titolo di Variazioni per orchestra op. 31 (1926-28). La prima fu diretta, nel 1928, nientemeno che dall’importante direttore berlinese Wilhelm Furtwängler, all’epoca quarantaduenne. Per quanto mi riguarda, ho dovuto invece “adattarmi” ad ascoltare l’esecuzione della Los Angeles Philharmonic Orchestra diretta da Zubin Mehta. Eccezionale!

Ma composizioni ce ne sono molte altre, e non sto a tediarvi ulteriormente con descrizioni meticolose.

Ritengo tuttavia di dover almeno riportare che, fin dal 1904, Schönberg ha avuto un sia pur ristretto numero di allievi. Fra di essi Alban Berg e Anton Webern.

Tecnicamente ha fatto uso anche di aggreganti politonali.

…lo so da me: certo non pretendo che un siffatto modo di comporre sia compreso da tutti, però, per chi non riuscisse ad afferrare il concetto, cerco di darne ugualmente un’idea.

Perciò, facciamo conto di avere, in una stanza, due pianoforti. Un pianista suona ad uno di essi usando solo i tasti bianchi; l’altro soltanto i tasti neri.

In quest’esempio, una specie di aggregamento vi è di sicuro, ma che poi si possa anche definire politonalità, apro le mie più ampie riserve, come si dice. Infatti, è ovviamente un’esemplificazione semplicistica e assai approssimativa.

Però, se le parti dei due pianoforti fossero state scritte da uno Schönberg, penso che le cose andrebbero a posto da sé, e probabilmente questa mia idea potrebbe diventare subito più che valida.

Mi spiace, ma debbo tralasciare l’interessante, ma ahimè troppo pedante elencazione delle opere e taluni particolari complementari, in questa sede un po’ troppo tecnici.

Ma non posso non dirvi almeno che, con l’avvento di Hitler (nato nel 1889 a Braunau, in Austria presso il fiume Inn, ai confini con la Germania, se non ho visto male sulla cartina), Schönberg fu allontanato dall’insegnamento presso l’Accademia di Berlino e perciò si trasferì subito, con la famiglia, prima in Francia e poi, a corto di mezzi, accettò l’incarico al Conservatorio Malkin di Boston, negli USA, insegnando contemporaneamente anche a New York.

Per incarichi simili, fu poi anche a Hollywood e a Los Angeles, dove si spense nel 1951.

[2] A proposito della musica, sapete che cosa ci dice l’inglese Charles Robert Darwin (1809-1882)? Sostiene che la capacità di eseguirla e apprezzarla era insita nella razza umana molto prima che essa elaborasse un linguaggio articolato. Per questo motivo, forse, oggi la musica esercita su di noi una influenza così sottile. Il nostro animo – continua, da par suo, l’illustre naturalista – conserva un vago ricordo di quei secoli oscuri agli albori del mondo. (Da “Sherlock Holmes”, di Sir Arthur Conan Doyle).

Devo aggiungere assolutamente un intelligente, quanto felice commento che ho ascoltato via TV oggi, domenica 18 gennaio 2004, dall’attuale Assessore alla Cultura della Regione Toscana, Mariella Zoppi. Cito a memoria: “Il canto è il primo linguaggio fra la mamma e il suo bambino”.

Stupenda osservazione che va a riprendere – e così in un certo senso anche colmare – la saggia riflessione darwiniana.

Ma, visto che per la musica c’è venuto incontro nientemeno che un Darwin (e la squisita Signora Zoppi), mi corre l’obbligo, come si suol dire, di pormi in difesa anche del “successivo linguaggio articolato”.

Oltre all’elogio incondizionato verso chi nell’antichità ebbe l’idea grazie alla quale spostando un numero di una posizione lo considerò moltiplicato di dieci rendendo possibile così lo straordinario concetto di “sistema decimale”, chi, di certamente imprevedibile, vado ora a chiamare in ballo?

Non ci credereste, se non riportassi le sue precise parole, tanto è ben considerato in campi scientifici, ma non certamente per l’aspetto letterario. Rompo perciò ogni indugio e vi sparo subito il nome: Galileo.

Galileo?!, direte certamente voi, come del resto mi sono meravigliato anch’io quando ho letto ciò che vi riporto qui di seguito. Come, proprio Galileo Galilei, l’astronomo, l’inventore, l’inquisito? Sì, amici, proprio lui. Ci dice, infatti, questo nostro grande scienziato a proposito del linguaggio: “Ma sopra tutte le invenzioni stupende, quale eminenza di mente fu quella di colui che s’immaginò di trovare modo di comunicare i suoi più reconditi pensieri a qualsivoglia altra persona, benché distante per lunghissimo intervallo di luogo e di tempo? […] Con i vari accozzamenti di vénti caratteruzzi sopra una carta. Sia questo il sigillo di tutte le ammirande invenzioni umane”. (Dal “Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo”, Giornata prima).

Dite la verità che non ve l’aspettavate questo commento così bello, fatto da un Galileo, lui che, in genere, lo pensiamo “soltanto” qual scrutatore di stelle, pianeti e satelliti…

Evidentemente Galileo vedeva lontano; e non solo quando osservava il cielo!

[3] Dopo che ho iniziato a leggere opere di diversi autori che mi sono apparsi interessanti, di Robert Musil (1880-1942) ho trovato, in una sua opera giovanile dal titolo Congiungimenti, un’espressione piuttosto attinente a quanto avevo già scritto in questo capitolo. Dice, infatti: Ci sono cose che non si possono fare mai, non si sa perché, e sono forse le più importanti.

Per fortuna – disordinato come sono nelle cose che peraltro non considero certo fra le più importanti -, almeno per qualche aspetto, mi sostiene quanto Bernhard Berenson (Vilnius, 1865 – Settignano [Firenze] 1959; storico, critico d’arte e collezionista statunitense d’origine lituana) sembra dire per me quando non sono troppo ligio ai miei compiti “accessori”. Dice Berenson: «Mi pare che nel troppo curato, nel troppo perfetto ci sia quasi un’ombra di volgarità e che nelle cose usate, logore, leggermente muffite, polverose e cenciose, ci sia un certo charme, una familiarità tenera e affettuosa».

Grazie, Berenson, d’essere venuto in mio soccorso: mi sono sentito un po’ sollevato. Ma in ogni caso, avrei avuto pur sempre la carta di riserva di Quentin Crisp, il quale, nelle sue memorie, ha lasciato, tra l’altro, anche le seguenti precise parole: «La polvere non peggiora più dopo i primi quattro anni».

[4] Tensioattivata – Lo fo derivare dal sostantivo “tensioattivo”. I tensioattivi sono sostanze in grado di abbassare la tensione superficiale di un liquido, o fra due liquidi, o fra un liquido ed un solido aumentandone le proprietà schiumogene.

[5] La seguente aggiunta la sto facendo oggi domenica 9 maggio 1999.

Ho letto che non è molto – tratta da “Diapsalmata” di Søren Aabye Kierkegaard (1813-1855) – una definizione piuttosto articolata di chi sia un “poeta”. Ve la riporto perché anche il poeta è pur esso un artista; tra l’altro fra i più sensibili, benché tale affermazione non sia generalizzabile: svolge la descrizione polemizzando con i critici, ma ciò non toglie niente alla valenza dell’acuta osservazione.

Dato che non è eccessivamente lunga, la riporto pari pari, soprattutto per chi di voi non l’avesse ancora letta.

O sentite: “Che cos’è un poeta? Un uomo infelice che nasconde gravi pene nel suo cuore, ma le cui labbra sono conformate in tal modo che il sospiro e il grido all’uscirne le rende squillanti come una bella musica. La sorte è simile a quella di quegli sciagurati che nel toro di Falaride(*) furono tormentati a fuoco lento, e le cui grida non potevano giungere all’orecchio del tiranno per turbarlo, giacché per lui avevano il suono di una dolce musica. Ora gli uomini si affollano intorno al poeta e gli dicono: «Canta presto di nuovo, cioè che nuove sofferenze torturino la tua anima, e che le tue labbra seguitino a essere conformate come prima, poiché le grida non farebbero che inquietarci, ma la musica è soave». E i critici si accostano dicendo: «Va bene, così dev’essere secondo le regole dell’estetica». Si capisce: un critico somiglia a un poeta come una goccia d’acqua a una goccia d’acqua, soltanto che egli non ha le pene nel cuore né la musica sulle labbra. Ed ecco perché io vorrei piuttosto essere porcaro ad Amagerbro e farmi capire dai porci, che essere poeta e venir frainteso dagli uomini”.

(*) – Falàride – tiranno di Akràgas (ora Agrigento) – Divenne famoso per il toro di bronzo che fece costruire per poi, dopo averlo arroventato, rinchiudervi i suoi nemici. (Dal racconto di Luciano, Phalaris I, 11).

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