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Giuliano Lastraioli: La fine della navigazione empolese

LA FINE DELLA NAVIGAZIONE EMPOLESE

« Lamento dei navicellai senza lavoro a causa della strada ferrata:
‘chemin de fer, chemin d’enfer’ »

« Tutto fa », come disse la moglie di un navicellaio rimasto
in secca a certe lavandaie che si stupivano nel vederla pisciare in Arno.
PROVERBIO EMPOLESE

«… sul fiume va l’alzaia,
non già per aria. L’aria è aria, nulla.
Ma l’acqua è cosa, quando pur traspaia ».
GIOVANNI PASCOLI

« … E scendessi così, tra l’acqua e il cielo con l’alzaia
e traesse il bardotto la sua fune
senza canto per l’argine ».
GABRIELE D’ANNUNZIO

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Donna Lina Del Vivo Salvagnoli Marchetti, compianta consorte del comm. Antonio Del Vivo, ebbe fra i suoi molti meriti quello di cooperare attivamente alla nascita ed allo sviluppo del « Bullettino ». La sua passione per la storia empolese era travolgente ed i suoi entusiasmi contribuirono non poco a fare del dottore in chimica Mario Bini il massimo artefice di questa rivista.

Come coerede di cospicua parte dell’archivio Salvagnoli, donna Lina non sfugge però a qualche postumo rimprovero, che il pur devoto estensore della presente nota muove benevolmente per un duplice ordine di motivi:

1) l’amplissima liberalità della signora, da cui trasse origine l’irrimediabile dispersione di non poche carte salvagnoliane, che importanti uomini di studio ottennero in prestito fiduciario e non restituirono mai;

2) l’abitudine, non certo imitabile, di annotare e commentare di proprio pugno i più significativi documenti dell’archivio domestico, usando allo scopo inchiostri indelebili e poderose matite rosse e blu.

Il virgolettato del sottotitolo di questo contributo è, appunto, la personale chiosa che donna Lina appose sul primo foglio di una memoria in difesa della disgraziata classe dei navicellai che Vincenzo Salvagnoli, rimpatriato dall’esilio di Nizza, dove si era rifugiato « per non finire come Pellegrino Rossi », aveva dettato nella villa paterna di Corniola il 4 novembre 1850.
Peraltro è giocoforza ammettere che l’epigrafica rubricazione di Lina Del Vivo compendia efficacemente il contenuto dello scritto.
Il calembour francese « chemin de fer, chemin d’enfer » (strada ferrata, strada infernale) è davvero una chicca.
Se ne accorse Luigi Testaferrata allorché, lavorando al suo ultimo romanzo Tenera come colomba (Firenze, Vallecchi, 1987), ebbe modo di consultare presso di noi la copia fotografica del materiale che ora pubblichiamo integralmente in calce.
Sarà un servizio reso, oltre che alla storia locale, a quei futuri storici della letteratura che vorranno indagare sulle fonti ispirative e documentarie di quel racconto, di cui Geno Pampaloni ha posto in luce tutto l’afflato epico, « un po’ ingombrante per erudizione, ma potenzialmente suscettibile di elevare il libro al rango di « un piccolo classico ». Del resto anche gli intensi passaggi sul « Viva Maria », che si leggono nella medesima opera, trasfigurano in arte narrativa la fredda impostazione storiografica di una nostra modesta ricerca (Vandea in Valdarno, BSE, VII, nn. 7-12, 1980- 1982, pp. 293-333).

* * *

Il 1848 e, più assai, il 1849 segnarono profondamente la società empolese, scombussolata nella sua operosa tranquillità codina dai formidabili rimescolamenti politici del fatidico biennio.
L’avvento della monarchia costituzionale, i maneggi dei « moderati » e gli intrighi della influente consorteria salvagnoliana, lo sconcerto seguìto ai rovesci militari in Alta Italia, la dirompente comparsa dei primi repubblicani e radical-democratici (chi a muso duro come Bista Nardi e chi avvolto in dubitose nebbie mentali come Lorenzo Neri), l’insorgenza violenta contro il governo Guerrazzi in appoggio al latitante Granduca, la fiera occupazione austriaca che disgustò tutti, il ritorno in auge dei legittimisti di stretta osservanza e la conseguente delusione dei notabili riformisti incisero nel tessuto civile di Empoli come il bisturi nella carne viva, con effetti disgreganti di consolidati equilibri sociali ed esistenziali.
Ai colpi di coda della nomenklatura reazionaria legata a Niccolò Lami detto « il navicellaio », faceva riscontro la rancorosa frustrazione di quel ceto emergente per censo e per novità di interessi che si era riconosciuto nell’esperienza costituzionale partecipando attivamente alle vicende quarantottesche e che, una volta restaurato l’ ancien régime, si adattò a prudenti trasformismi nella fondata speranza che, prima o dopo, il caldaione del movimento nazionale avrebbe ripreso a bollire.
Per il popolino lazzarone e misoneista i radi « nemici dell’Ordine », che sognavano ancora di ribaltare le cose con i conciliaboli da caffè e gli exploits paragoliardici, non erano che stravaganti velleitari.
Il tran tran dello status quo ante e l’abitudinaria way of life di un antico insediamento umano che per secoli aveva vissuto a ritmo di mercato settimanale, scandito ad ogni Corpus Domini dal volo del ciuco, erano stati ormai irrimediabilmente sconvolti dalla costruzione delle due strade ferrate, la Leopolda e la Centrale, che avevano fatto di Empoli un nodo importantissimo dello sviluppo toscano e che, rivoluzionando come non mai l’economia paesana, avevano ridotto al lumicino il navicello, la diligenza e il barroccio, tradizionali occupazioni di molti empolesi.
Dopo l’avvento della ferrovia, rumorosamente osteggiata fino al sabotaggio da quanti vivevano di Arno e di cavalli, all’assetto mercantile e rusticheggiante di Empoli si affiancò, in lento ma costante decollo, un’articolata struttura industriale di cui già da tempo si intravedevano gli embrioni.
Il cammino per uscire dalla traumatica crisi fu tutt’altro che facile. Parve nell’immediato che i « vettori » empolesi fossero stati condannati senza scampo alla più nera miseria. Non si intravedeva una possibile via d’uscita alla inemendabile disoccupazione in cui erano precipitati non soltanto i navicellai, ma anche tutti gli operatori dell’indotto, cioè coloro che comunque gravitavano, con le loro occupazioni, intorno al trasporto fluviale. Veniva meno — e per sempre — tutto un mondo che aveva dietro di sé una grossa storia e grande influenza su tutto il paese. Dall’alzàia erano scaturiti, già nel quindicennio napoleonico, personaggi come Amadeo Del Vivo (1775-1862), « nato senza agiatezze », come recita il suo epitaffio nel loggiato dei Cappuccini, « ne’ varii commerci provvido, industre » al punto da chiudere la sua longeva esistenza « fra le oneste dovizie che egli raccolse » (sette tenute con altrettante ville e fattorie per altrettanti figlioli; praticamente il big della finanza empolese). Ma chi era rimasto navicellaio, nel 1850, tirava la cinghia e non aveva di che mettere insieme il desinare con la cena.
Inutilmente, tre anni prima, l’avvocato Pietro Garinei aveva esortato i concittadini a provvedere per tempo i rimedi contro i prevedibili danni che sarebbero derivati « al commercio delle vetture e agli operai ed artieri empolesi » dall’attivazione della ferrovia. La sua « Panacea economica », letta nell’Accademia empolese di scienze economiche teorico-pratiche il 15 agosto 1847, tra varie banalità e molta retorica progressista, conteneva anche qualche utile suggerimento. Ne diamo un significativo stralcio:

« Empolesi — Siate pur certi, che la Via Ferrata Leopolda, e le altre vie che si vanno costruendo appo il vostro territorio Municipale ed avranno stazione nel vostro paese vi apriranno un campo a molte speranze. Una età novella sorge per voi e pei vostri figli con un prospetto del più bell’avvenire.
Empoli per la sua centralità nel più bel punto della Toscana e framezzo alle più ricche città può, se il volete, e se al volere la industria operosa congiungerete o Signori, può divenire la Manchester della Toscana.
Sì, io non mi illudo. La opinione è universale. La sentenza è di tutti i Politici, di tutti gli Economisti Toscani, Italiani e Stranieri.
Ma a che decantare una felicità avvenire, dicono i danneggiati travagliatori, i commercianti delle languenti vetture, se frattanto mancando noi di lavoro, manchiamo di Pane, e senza pane morirem noi e i nostri figli nel languore, e nella miseria?
Avete ragione, o miserabili artieri ed opranti. Egli è qui ove io credo potere indicare un rimedio ai vostri mali ed alla vostra disgrazia, egli è qui ove io ho ordite le mie fila, e concentrate tutte le mie idee Economiche per venirne tosto al vostro soccorso.
Un rimedio deciso non vi ha che alla pienezza del male tosto provveda.
Un modo medio si può agevolmente trovare, il quale ponendo in accordo il bene ed il male di che sono cagione le strade ferrate costituisca quella riforma Economica voluta dai nostri bisogni, e che convenevole sia ai tempi moderni di civiltà progressiva.
Il modo medio consiste nell’organizzare a tempo nuovi lavori d’arte, e d’industria, aprire nuovi opifici, restaurare le abbandonate fabbriche.
Voi ne siete in tempo, o Empolesi dannificati, o Vettori, o travagliatori, o artieri, poiché la Via Ferrata Leopolda che più d’ ogni altra muoverà alla vostra presente industria ed al vostro lavoro, non è ancora al suo compimento.
Frattanto voi lavorate, voi lucrate, voi fiorite nel moribondo commercio delle vetture.
Non vi addormentate però nella dovizia e nell’ oro, che il sonno vi sarebbe fatale.
Riunite o Vettori i vostri capitali ed associatevi per aprire in Empoli nuove manifatture che di tante è mancante. Associatevi ai capitalisti della vostra Patria. — Costituite delle Società di commercio, e vi persuaderete che il vostro male è passeggiero, e che l’ uomo laborioso, cui sieno Palladio e volontà e mano, trova dovunque da impiegare e la sua intelligenza e le sue forze. — Le braccia non dondolano che all’ uomo inerte ed ozioso.
Capitalisti Empolesi non rifuggite ai pubblici bisogni. Organizzate il Lavoro. Fate che il povero operaio possa sempre guadagnare un pane col sudore della sua fronte, e procurate che la industria riceva quell’ Impulsi e miglioramenti cui ad essa possono offrire la scienza e la osservazione.
Se così farete artieri e capitalisti, la miseria non colpirà né voi né i vostri figli, e voi ricchi non vedrete languire i vostri fratelli di Religione e di Patria ».

Le alate parole del Garinei, meglio noto in Empoli come « fidatissimo luogotenente » del Salvagnoli, così lo definisce Mario Bini, benché assai più anziano del collega anche nell’esercizio dell’avvocatura, furono applaudite, ma non sortirono alcun effetto pratico. Ciascuno continuò a coltivare i propri interessi spiccioli, alla giornata e senza precisi programmi per il futuro. La riconversione delle strutture e la grande simbiosi interclassista, divisate dall’oratore, si persero nel limbo magno delle sterili utopie.

Empoli non diventò la Manchester della Toscana. O almeno non sùbito.
Il forbito legale non aveva però tutti i torti quando avvertiva che non c’era tempo da perdere nel predisporre le contromisure alla crisi incombente, trasferendo l’impegno operativo e finanziario dai trasporti alle manifatture.
Gli eventi del febbraio 1849, culminati nella devastazione di lungo tratto della ferrovia Leopolda e nel bruciamento della stazione di Empoli, seppur occasionati da precise circostanze della temperie politica, quali la pressoché generale avversione al governo provvisorio del Guerrazzi e la paventata spedizione punitiva degli scalmanati livornesi, dettero nel contempo la dimostrazione più tangibile della intollerabilità della congiuntura economica determinata dalla strapotenza (e dalla prepotenza) del « Vapore ».

* * *

« Quando tornò lo statu quo », per dirla col Giusti, le autorità governative non poterono esimersi dal prendere in esame la situazione ormai deteriorata fino alla totale dissoluzione dell’antica industria vetturiera per via fluviale.
Una manatella di rapporti e di dispacci, che abbiamo espunto dalla filza che raccoglie il carteggio della Delegazione di Governo di Empoli per gli anni 1850-1851, ci è utilissima per conoscere gli sviluppi delle problematiche socio-economiche allora sul tappeto in Bassa Valdelsa e Valdipesa (la Delegazione copriva i comuni di Empoli, Castelfiorentino, Certaldo, Montaione e Montelupo).
Un primo rapporto in data 19 giugno 1850 del Commesso di Pubblica Vigilanza, Domenico Focacci (doc. 1) ci dà lo « Stato delle Fabbriche di manifatture » esistenti a Empoli. Poca cosa, in verità. Dobbiamo però considerare che da quel nucleo iniziale si irradiò e prese consistenza tutto il futuro industriale di Empoli.
Il lamento dei navicellai prende corpo in un dossier formato nell’autunno dello stesso anno. Il 22 settembre 1850 il Sottoprefetto di San Miniato, Manenti, scriveva al Delegato di Empoli per avere lumi in ordine alle querimonie di una deputazione di navicellai composta da Agostino Del Vivo, Giovacchino Allegri e Luigi Salvadori, i quali avevano rimesso all’autorità governativa un « cahier de doléances » non appena si era saputo che la società ferroviaria per l’esercizio della Leopolda era in procinto di ribassare ulteriormente le tariffe per il trasporto delle merci su rotaia (doc. 2).
il delegato, avvocato Agostino Sodi, incaricò di una istruttoria preliminare il commesso Focacci, il quale rimise le sue informazioni statistiche il 13 novembre (doc. 3). Tardando la responsiva del delegato di Empoli, il sottoprefetto Manenti insisteva ancora per conoscerne le deduzioni sulle istanze dei navicellai, chiedendo con urgenza « le sue osservazioni e parere », anche in replica ad ulteriori pressioni, cui « una supplica umiliata al Regio Trono » da Agostino Del Vivo ed una memoria redatta in difesa dei navicellai dall’avvocato Vincenzo Salvagnoli, allora tenuto come il fumo agli occhi negli ambienti ministeriali (doc. 4).
Abbiamo la minuta autografa dell’ampia nota deduttiva spedita a San Miniato il 20 novembre dal delegato Sodi, il quale si diffuse minuziosamente nell’esaminare tutti i complessi aspetti del problema, ma senza suggerire alcun rimedio concreto. Secondo l’avvocato Sodi la questione si prospettava di difficilissima soluzione: « è di alta indagine ed è da esaminarsi sotto ben altri rapporti ». Concludeva che « la pochezza di un Delegato » non poteva additare mezzi di salvezza. « Esposta la verità e l’estensione del male », sarebbe stato ufficio della « profonda Sapienza Superiore convenientemente valutarlo di fronte alle circostanze ed agli interessi generali » (doc. 5). La tipica scappatoia del provideant consules!
La relazione del Sodi era già alla posta quando gli pervenne la memoria del Salvagnoli, che fu liquidata in due righe con un biglietto del 21 novembre: « non presenta riflessi che non sieno già stati in qualche modo da me avvertiti » (doc. 5, in fine).
Con questo sbrigativo non expedit il Sodi restituiva al sottoprefetto la fatica del buon Cèncio, che a nostro avviso avrebbe meritato una più oculata attenzione, non foss’altro perché certi accenni disseminati nel contesto dell’intervento erano chiara espressione delle idee di un personaggio politico assai scomodo e tuttora autorevole, ancorché in disgrazia per la piega reazionaria presa dagli avvenimenti.
Salvagnoli non smentisce la sua fama di liberale, ma non scade nel culto del liberismo economico: il monopolio dei trasporti largito alla Leopolda dal « governo assoluto » (iniziali minuscole) non ha niente a che fare con la libertà dei commerci, anzi la conculca. Il « Governo Costituzionale » (iniziali maiuscole) deve riparare il danno, sopperendo alla miseria dei navicellai anche per evitare pregiudizio alla pubblica quiete. I dati numerici somministrati dal Salvagnoli sono senza dubbio gonfiati, anche se riferiti a tutto il corso navigabile dell’Arno (si affermano messi sul lastrico i padroni e gli equipaggi di mille navicelli, oltre a ventimila mestieranti dell’indotto: calafati, funaioli, retai ecc.), ma il timore di moti inconsulti e di un incremento della delinquenza per la diffusa disoccupazione è tutt’altro che peregrino. Visto che i poveracci senza lavoro non potranno ridursi tutti alla condizione di bracciante agricolo, « pigionale » o « garzone », specialmente se padri di famiglia, « si consideri quali inconvenienti alla proprietà e alla personale sicurezza possono venire da tanti disperati che dalle rive dell’Arno si spargeranno a foraggiare continuamente per la pianura e per le colline. A quali tentazioni resisteranno? A quali seduzioni non daranno ascolto? Da quali imprese si asterranno? Quantunque la prudenza vieti di rappresentare i mali che la fame consiglia, specialmente in questi tempi, la mente dello Statista non può non rimanere attristata e spinta a un tempo istesso a prevenirli o almeno a diminuirli ».
In questo passo c’è tutto il Salvagnoli: liberale moderato e costituzionale, strenuo difensore della proprietà privata, ostile ai turbamenti dell’ordine ed alle « seduzioni » politiche (mazziniane, socialistiche ed anarchiche) alle quali avrebbero potuto cedere le masse più diseredate. Non è un retrogrado (« Noi non siamo gregoriani da dire che non dovessero esserci in Toscana strade ferrate »), ma vuole giustizia nella tranquillità.
L’uomo di Corniola non rifugge dal prospettare un rimedio ritenuto giusto e speditivo. In quest’ottica avanza anche una tesi giuridica arditissima per l’epoca, equiparando il diritto al mantenimento del posto di lavoro al diritto di proprietà e quindi assimilando, in una globale concezione di realità, l’ablazione della fonte di reddito, sia pure indiretta ma conseguente, alla concreta e diretta espropriazione dei terreni agricoli utilizzati dalla Società Leopolda per la realizzazione del tracciato ferroviario. Come erano stati risarciti i proprietari dei fondi occupati dalla strada ferrata, così pure andavano trattati i navicellai. Gli agricoltori erano stati espropriati con atto d’imperio della terra, i navicellai erano stati espropriati di riflesso del loro mestiero. Come i primi, anche i secondi dovevano essere indennizzati. Salvagnoli adduce un precedente di stretta analogia: nel 1831 il governo aveva elargito 109.498 lire « per titolo d’indennità » a certi produttori di tabacco « quando la loro industria fu espropriata a favore del Monopolio ». Non meritavano i poveri navicellai identica provvidenza?
Allo stato della ricerca ignoriamo il séguito del carteggio.
Un fatto è certo: il navicello, dal 1830, era destinato a scomparire, nonostante tutte le polemiche, gli interventi e le discussioni. Con gli anni crebbero le manifatture, si crearono altre attività terziarie e, pur fra grandi tribolazioni, il mondo andò avanti anche a Empoli, ma, come nel suo romanzo Testaferrata fa dire a Giovacchino Allegri, « il mestiero del navicellaio era finito », pur se qualcuno non volle mai arrendersi fino alla consunzione. Dopo il riassetto dell’Arno seguito alla edificazione del ponte, fu costruito sul braccio residuale del fiume un nuovo scalo, che resse fino alla piena del 4 novembre 1966, ma servì a poco o nulla. Del pari si rivelarono assolutamente inutili gli studi eseguiti in questo secolo per tornare alla navigabilità dell’Arno. Furono conati di retroguardia: l’automobile stava già insidiando il primato della rotaia. Figuriamoci se tornavano i barconi!
C’erano più navicelli in Arno che gondole a Venezia, scrive ancora Testaferrata. Empoli però non era Venezia e, per risorgere, agli empolesi convenne tenere altro viaggio.

GIULIANO LASTRAIOLI

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