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Un Bicchiere Mezzo Vuoto – Tommaso Mazzoni

↖ Collana su Ferruccio Busoni – di Tommaso Mazzoni

UN BICCHIERE MEZZO VUOTO[1]

tratto da “SCRITTI”

PRESENTAZIONE

(A CURA DELL’AUTORE)

So per certo ormai che qualsiasi cosa che debba essere giudicata, può essere vista sia dal punto di vista di colui che, vedendo un bicchiere riempito a metà, lo giudica mezzo pieno o dall’altro punto di vista che lo considera invece mezzo vuoto.

Chi ha subìto una stroncatura, è senz’altro certo che chi osservava un suo lavoro, lo ha giudicato – a ragione o a torto, più o meno prevenuto o con maggiore o minore obiettività – dall’ottica del bicchiere mezzo vuoto, nel senso che lo ha considerato come non riempito completamente, esercitando il personale soggettivo criterio del non riempito abbastanza; e anche chi lo abbia visto come un bicchiere mezzo pieno lo ha logicamente giudicato come non riempito del tutto, pure se con tutto l’ottimismo di cui abbia voluto avvalersi!

Allora, direte voi, come sta la cosa, visto che non sussiste alcuna differenza sostanziale?

“Alcuna differenza”. E avete ragione, quindi: non ci sono differenze sostanziali. Qui il cavillo.

Tenendo sempre presente quanto, di Ezra Pound, si trova riportato anche nell’articolo “Un po’ a Tentoni”, appartenente a questo mio stesso libro, e cioè che Il linguaggio non è una cintura di castità, ma un mezzo per comunicare, la differenza con cui si esamina un’opera può dipendere, infatti, anche dal nostro umore (a parte i casi in cui essa sia stata maggiormente reclamizzata) e, peggio ancora, nei casi in cui fosse mal giudicata per preconcetto: se si vuole, si osserverà sempre e comunque l’aspetto del pessimistico bicchiere mezzo vuoto o dell’ottimistico – ma soltanto di nome – bicchiere riempito però, nonostante tutto, solo a metà. L’oggetto osservato, come abbiamo prima ammesso, è pur sempre il medesimo.

Se però prevale l’umore ottimistico od una predisposizione al positivo, ecco che, come per miracolo, una ‘crosta’ può apparire come una originale pittura, una musica strana diventare musica ricercata e di avanguardia, una vivanda insipida e mal preparata acquistare il profumo e il gusto di un sapido e ricercato manicaretto perfino cotto a puntino.

Una volta si diceva: le barzellette dei ricchi fanno sempre ridere. Perciò il fatto che siano state – e forse in taluni casi lo siano tuttora – sempre divertenti, porta a pensare ad una sorta di componente, che può andare dal compiacimento all’adulazione, dall’accondiscendenza all’ipocrisia.

Ciò non toglie che chi compie l’opera non debba fare sempre del suo meglio; se non altro per renderla maggiormente comprensibile, anche attraverso la ricerca della semplicità.

Almeno io la penso così.

Escludendo peraltro a priori, e logicamente, una componente basata sulla malafede, quel che conta, cari e preziosi amici che vi accingete a leggere anche questo mio lavoro, dispiegato nelle pagine che seguiranno, è dal modo con cui le cose vengono accolte.

Una ricerca d’indulgenza? Una sorta di captatio benevolentiæ?

Direi un po’ di tutt’e due, perché negarlo. È, il mio, un esplicito riconoscimento dei miei forti limiti, ma…

…sì, ho capito, taglio corto, d’accordo. Scendo perciò subito al mio ‘dunque’: se si vuole giudicare i concetti qui espressi dal mero punto di vista letterario, l’invito è di lasciar stare e passare ad altre più qualificate letture; ma se invece, come ritengo, siete più interessati a trovare stimoli per ampliare le vostre conoscenze, allora sì che sottolineo l’invito a proseguire, ché spunti ritengo ce ne siano abbastanza, se non per via diretta, cioè per le idee che possa profondervi io, sicuramente attraverso i commenti da me riportati di scrittori seri, od almeno di quelli per i quali, sia io personalmente che molti amici che stimo, in massima parte condividiamo certi princìpi (già, perché, a mezzo dei miei soltanto… andreste poco lontano). Il mio giocherellare, ormai lo sapete, anche perché ne ho parlato in altra occasione, è un fare battute da ‘intermezzi’, che, al pari degli intervalli, servono a guadagnar tempo per… preparare la scena per l’atto successivo. E così, con quelle, tento di alleggerire il discorso, che lì per lì mi sembra troppo affossante. Ma non crediate, anche se i miei lazzi e le mie celie non potranno mai raggiungere la valenza di un significato che è riuscito a dare Goethe, tuttavia non sono sempre sempre lazzi e celie. Goethe, con un ossimoro ad hoc, chiamava il suo Faust “I miei molto seri scherzi”, ma lui ha scritto, tra le tante magnifiche cose, anche un Faust; io, invece, nemmeno un… Faustino. Ma non mescoliamo il sacro col profano, via! Anche questa è una battutaccia trita trita che c’è venuta, ma è meglio ritornare subito all’argomento.

Dicevo che, quando or ora ho parlato di intermezzi e di intervalli, una volta, lo ricordo benissimo, per certi allestimenti scenici di teatro, si sentiva perfino, fra un atto e l’altro, il battere dei macchinisti sui chiodi delle cantinelle. Io, almeno, vi risparmio la parte… ‘sonora’ dei miei vari intermezzi. E, per di più, se non volete continuare a leggermi, lo potete fare quando volete; che c’è di bello, è che non lo verrei nemmeno a sapere. Vedete com’è meglio scrivere che parlare! Difatti, quando uno parla e l’altro non lo sta ad ascoltare – anche se, in modo compreso, annuisce e scuote la testa in segno d’assenso e invece pensa ad altro -, chi parla se ne può anche accorgere. Ma chi scrive… non corre questi rischi. E nessuno oserà, incontrando un amico, domandargli commenti su quanto gli aveva graziosamente dato a leggere non appena ultimata la fatica.

Tuttavia – e ritorno in tema – non per immodestia, ma vorrei includere, e che valutaste, fra quanto ovviamente è da prendersi in considerazione, cioè delle citazioni di scrittori[2], anche ciò che vi butto giù io direttamente (non quei commenti fasulli: alludevo a quando parlo serio), perché ritengo che rappresenti pur sempre frutto di conoscenze più o meno maturate, più o meno condizionate, convogliate; mai intenzionalmente omesse parzialmente o distorte. E, ciò, ai fini di trasmettere a chi mi legge quanto più mi ha colpito, ossia i fatti verso i quali ho posto la mia attenzione ed esercitato il mio interesse di osservatore volente, ma anche abbastanza frequentemente nolente, in particolare per quanto accade di negativo, fatti che purtroppo càpitano e che pertanto devono per forza balzare agli occhi ed essere quindi da me annotati.

Non si può, insomma, non tenere conto di tutte quelle cose che, piccole o grandi, avvengono intorno a noi, far finta di nulla per ciò che accade di negativo. Solo l’artista, quando pensa di creare opere di esclusivo sapore positivistico che raggiungano un costruito e magico realismo, può permettersi un siffatto modo di procedere, ma non chi intenda scrivere cose sorrette, tese alla massima obiettività, nel tentativo di giungere od almeno avvicinarsi a quell’inafferrabile e perfetta realtà, che tuttavia è pur sempre e necessariamente soggettiva.

Quello che ritengo forse maggiormente utile (o meno inutile!), di ciò di cui vi ho già ‘parlato’ o vi parlerò, è quella che potrei definire una sorta di ammorzatura, per volersi esprimere in termini architettonici, cui poter aggettare conoscenze su conoscenze, esperienze su esperienze. Sappiamo tutti che, intendendo costruire la nostra casa contigua ad un’altra, ritrovandoci un muro da potersi usare in comune a cui ‘appoggiarla’, e questo è già predisposto all’uopo, la nostra casa risulterà meno dispendiosa, non solo, ma siamo forse anche più invogliati a procedere.

Uno spunto di uno scrittore, o mio, non è perciò che una minuscola ma pur sempre preziosa tessera di quell’incommensurabile gioco del domino da dove non si può non muovere: quella nuda e isolata tessera presso cui, poi, si può perfino tornare o riavvicinarci, ma sempre più arricchiti e con il conforto di quella luce dovuta a tutte le esplorazioni, alle sempre più ampie volute, alle acquisizioni e le conoscenze comunque realizzate, pur se condizionate dall’opposto attanagliamento centripeto dovuto ai condizionamenti e alle nostre limitazioni strutturali e storiche e dove, ogni volta che ci riavviciniamo, possiamo trovare ulteriori significati, grazie proprio alle nostre aggiunte esperienze.

È, infatti, grazie a questo perfezionarsi dell’esperienza, cosa che è dovuta a quell’innata forza che tende sempre più ad allontanarci da quella sfuggente fase iniziale che vi ha fatto, o vi farà, trarre largo e proficuo vantaggio; di certo più di quanto non possa aver saputo fare io.

Questo, tuttavia, anche il mio augurio.

Potrete rilevare, per mia limitatezza, infatti, che non ho mai tentato di dare definizioni su materie che ritengo inafferrabili, dato che omnis definitio est negatio. Dal momento che una cosa è definita, di per sé è già negata; e in fatto di cose trascendentali in specie non è che mi ci accosti tanto agevolmente, anche alla luce di quel breve, vero, seppur lapidario, monito latino.

Vi accorgerete anche che molto di ciò che vi dico è accompagnato sovente dal mio sentimento del nulla, che si colloca fra l’ansia psicogena (per la quale non è che sia riuscito a trovare rimedi efficaci) e la percezione della non verificabile, però reale, inanità di tante ‘costruzioni’ che stanno in piedi unicamente perché il giroscopio di quello che chiamiamo vita non scende al disotto della velocità minima critica.

Se si vuole, quindi, un’opera, una realizzazione – come la vita di per sé – può ottimisticamente apparirci piena come un bicchiere utilmente riempito per una buona metà, o se si preferisce come un bicchiere in cui si noti una mancanza, ma limitata, questa, ad una sola metà.

Peraltro, si può vedere anche per il relativo diretto negativo, ossia come un bicchiere mezzo vuoto, od anche riempito; ma in modo insufficiente: soltanto a metà.

Del resto i pessimisti propendono a rimarcare la particolarità che i gigli appartengono alla famiglia delle cipolle, mentre gli ottimisti tendono a farci presente che le cipolle fanno parte della famiglia dei gigli (Gigliacee, Lilium). Può sembrare piuttosto bizzarro, ma anche in questo caso hanno ragione tutt’e due.

E ora che ho gingillato perfino troppo con questo fatidico bicchiere, tanto da vedermelo quasi qui davanti, immaginiamoci che il contenuto usato, il liquor ministrandi, consista di ottimo vino: che ci rimettiamo?, e non ci costa nulla nemmeno a immaginarcelo pieno pieno.

Perciò…

Salute!

 

Empoli, mercoledì 13 novembre 1996 19h30′.

TOMMASO MAZZONI – UN BICCHIERE MEZZO VUOTO.

Per gentile concessione


Note e Riferimenti:

[1] Vi riporto, anche perché il commento lo ritengo giusto ad hoc, quanto ci dice ancora lo scrittore statunitense Ezra Pound (1885-1972) a proposito degli scritti di altri (non sarà, questa, come avrete già intuito, l’ultima volta che mi permetterò di… scomodarlo). Dice Pound: – Un critico acuto mi dice che non imparerò mai a scrivere per il pubblico perché insisto a citare altri libri. Come diavolo lo si può evitare? L’umanità ha avuto molte idee prima che io comprassi una macchina da scrivere portatile. (da Jefferson and/or Mussolini, Stanley Nott, Londra, 1935).

E voi, gentili amici, che certamente avrete notato la data in cui Pound ha fatto quel commento, pensate forse che per chi scrive oggigiorno, e soprattutto per me, il compito sia più facile? Ma vi immaginate che caterva di idee e di scritti è venuta a galla da quel lontano 1935 fino ad oggi – anno 1996 – cioè in più di sessant’anni? E romanzieri, e filosofi, e poeti, e pensatori, e storici, ed economisti, e matematici, e fisici e, perché no?, giornalisti e cronisti della carta stampata e della radio e della televisione di Stato e non soltanto; e di settimanali, e di mensili, e… chi più ne ha più ne rammenti. Ma, v’immaginate, dal 1935 in poi? Inoltre dovrebbe essere considerato anche il fattore ‘mezzi di diffusione’, che certamente contribuiscono, in modo esponenziale, almeno fino ad oggi, a propagare pensieri e idee, e alludo ai Cd-Rom, alle reti mondiali tipo Internet, alla televisione via satellite. Idee su idee, pensieri su pensieri, informazioni su informazioni che aiutano, contribuiscono, sicuramente (al di là degli aspetti negativi, propri di ogni novità), alla crescita – per chi vuole – intellettiva e formativa di stuoli di pensatori ed anche, eccoci arrivati, di scrittori.

Poveri noi!

Credo che di discorsi anche molto sensati e di scritti validi ne siano usciti tanti e poi tanti di cui dover tenere conto, anche per evitare di non ripetere o di riciclare come nuovo ‘materiale’ letterario scritto prima. Del resto, perfino il commediografo latino Terenzio (185‑159 a.C.), quindi molti, ma molti anni fa, non aveva detto: «Nullum est iam dictum quod non dictum sit prius.»? (L’Eunuco, prologo, 41).

Sono sicuro, quindi, che sarete d’accordo con me che è meglio ‘citare’ che plagiare o copiare addirittura: Pound, perciò, e anche Terenzio, e chissà quanti altri, hanno sicuramente ragione. A questo proposito, facendo tuttavia una battuta semiseria, c’è anche chi ha scritto: “Se uno scrittore copia un solo scrittore è plagio; se copia da parecchi… è ricerca” (Wilson Mizner, 1876-1933).

Proprio stamani, mercoledì 12 febbraio 1997, dalla rinomata Casa Editrice Leo S. Olschki di Firenze, ho ricevuto il pregevole nuovo Catalogo semestrale 1997~1998. Riporta la presentazione, intitolata «1886-1997» ed è nientemeno che di Umberto Eco.

Ebbe’, potreste dirmi, e con ciò…

C’è, ritengo, qualche ragione per la quale sono tentato di trascrivervene almeno l’esordio. Ma sì; non sono nemmeno tante, le righe, e v’invito perciò a leggerle qui di seguito; e poi non è tempo sprecato, credetemi. Dice, dunque questo nostro autorevole scrittore (nato ad Alessandria nel 1932): “Non è cosa da poco tentare una nuova introduzione a un catalogo Olschki, non solo perché in questa impresa mi hanno preceduto amici e maestri di grande dottrina e prestigio, ma anche perché questi miei predecessori, oltre alla dottrina, avevano il vantaggio della precedenza, e hanno detto sulla storia e i fasti della casa editrice tutto quello che c’era da dire, e a ripeterlo sarei un plagiario, sia pure confesso. E poi perché ripeterlo? Questi sono cataloghi ‘storici’ nel senso che sono destinati a durare negli scaffali, non da buttare dopo che si è saputo quali nuovi titoli ci siano in circolazione. E quindi, amico Lettore, vai nei tuoi scaffali e rileggiti le introduzioni precedenti, evitandomi l’umiliazione di essere epigono.

Che cosa fa un epigono, se si sente abitante di un impero alla fine della decadenza e osserva attonito i grandi barbari bianchi che passano? O compone acrostici indolenti, oppure legge cataloghi, per riandare a tante perdute grandezze, pensando che sì, mundus senescit, ma almeno cerchiamo d’invecchiare bene (…)”.

Qui, soltanto per non dilungarmi troppo, sono costretto ad interrompere il veritiero ed un po’ accorato discorso di Eco per tornare sui miei passi, non senza rilevare come si possa, a volte, dar credito persino a ciò che viene scritto su di un catalogo.

Lasciate però che esprima, per il momento almeno, qualche riserva per gli… elenchi telefonici e relative “Pagine gialle” o “Pagine utili” che dir si voglia.

Riprendo ora da qui il mio discorso interrotto.

Per me personalmente ci sono anche altri vantaggi. Vale a dire che, ritenendomi io soltanto uno che scrive per diletto, e quindi senza i crismi di un vero scrittore, i critici non si occuperanno certamente di me (nemmeno quelli ‘meno acuti’), e in più non penso mai a dire cose per un ‘pubblico’ (mi verrebbe il capogiro come guardare gli omìni nella strada da un grattacielo di trenta piani!), penso invece, e con tanto affetto, ai miei familiari e a voi amici.

Forse l’avrò anche già detto da qualche altra parte, ma quando è riportato il pensiero di un Autore è anzitutto un omaggio che si fa al medesimo: non è, credo, che gli facciamo un dispetto. Ci sono musicisti, del resto, come Brahms, Mozart, Busoni, Richard Strauss, tanto per fare pochi esempi clamorosi, che hanno preso pari pari musiche di insigni colleghi ed hanno operato revisioni, cercando di mantenere però una certa attinenza alle rispettive opere originali.

E poi, come nel mio caso, una citazione appropriata per un determinato argomento, non deformata o sfigurata, come appunto amo fare, aiuta sicuramente me a spiegarmi e voi a comprendere quanto intendevo esprimere. L’importante, così penso, è che uno scritto possa offrire un qualcosa in più, del genere che oggi, come se si trattasse di mercanzia, si chiamerebbe “valore aggiunto”.

Non so, però, se in me ne troverete.

Qualcosina mi auguro di sì, grazie anche alla vostra attenzione che, ne sono certo, sarà sicuramente utile a riflessioni da parte vostra sui vari spunti presentati; ma, direi soprattutto, in virtù della vostra bontà nel giudicare il frutto – acerbo o maturo che sia – di questo mio modesto lavoro che vi accingete a valutare.

Un’ultima aggiunta, a questa nota; e riguarda il nostro principale argomento: il conoscente, il concittadino, a volte anche l’amico, percepirà fatalmente in voi, come nel caso del “bicchiere”, l’aspetto del “mezzo vuoto”. Anche se vi sono persone validissime, fra coloro che mi leggono (e non ho ragione di dubitarne), non aspettatevi tuttavia che, da quelle categorie di conoscenti, concittadini, amici di cui ipotizzavo, venga còlta, in voi, l’immagine più gratificante: la valutazione sarà sempre (ma diciamo quasi sempre per benignità) da un punto di vista sfavorevole; salvo l’acclamazione, la chiara fama, il generale e formale riconoscimento da parte di chi davvero se ne capisce. In tal caso diventerete, all’istante, il loro miglior conoscente, il loro miglior concittadino, il loro migliore “amicone di sempre”.

Così funziona la faccenda di questo famoso bicchiere. Riempito, o svuotato di una sua metà…

[2] Chi mi conosce, ormai lo sa già che anche i migliori salmi vanno sempre a finire in gloria…, ma come si fa a non citare un fax – sì, avete letto bene, un fax – trasmessomi da mio figlio, certo mèmore del titolo di questo libro. Perciò sentite cosa Gabriele, mercoledì 21 ottobre 1998, mi ha riportato a proposito del bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno. L’autore che cita è Altan (ritengo trattarsi del noto disegnatore Francesco Tullio Altan: con quel nome non ne conosco altri):

“Sono ottimista. Il bicchiere lo vedo mezzo pieno. Di mer..”.

…Ma come si fa, come si fa a trascurare questi piccoli capolavori! Scatologici, d’accordo, ma capolavori. Non posso evitare di far godére anche voi che mi leggete di queste minute facezie! Ce n’è tanto poco di spirito sano in giro.

Nota – Io debbo veramente chiedere scusa alle vere signore – ma anche a taluni veri gentiluomini – specie per il quanto mai inopportuno accostamento della parola “salmi” a quell’immondo “prodotto”, ma vi assicuro che la cosa è avvenuta del tutto casualmente.

¿Dovrei ora trascurare un “epigramma” che mi ha colpito, fra quelli che si possono leggere qua e là sui muri dei gabinetti pubblici? Eh, no.

Perdonatemi per non volere, e soprattutto poter celare la crudezza, ma non è proprio evitabile il riportarvelo nella sua piena integrità; e così si chiude in bellezza. Alle signore e ai gentiluomini, tanto, avevo già chiesto scusa prima; eppoi certi aspetti di basso costume non li possono nemmeno capire, da come tali argomenti sono al di sotto del loro nobile pensare e dell’integerrimo agire: il testo dovrei addirittura spiegarglielo, ma… sorvoliamo:

 

Chi col dito il c.. si netta           

poscia in bocca se lo metta      

resterà così pulito        

carta, muro, c… e dito!

 

Se non fosse per il salvataggio in corner offertomi da Bob Dylan (nato nel 1941 come Robert Allen Zimmerman), a questo punto c’è chi può pensare che davvero il vostro autore abbia toccato il fondo…

– Del bicchiere, mezzo vuoto, o mezzo pieno che sia? – Qualcuno potrebbe chiedermi.

Macché. Il vostro autore, ossia io dovrò sprofondare ancora più giù, perché proprio di un’altra vera bassezza si tratta: è un’appendice, quella che aggiungerò, che non saprei nemmeno io come doverla giudicare. Ormai, però, già che sono alla pezza, tanto vale ritagliarne l’ultima sconcezza, promettendovi che non sarà così all’infinito: mi riprometto, anzi, di parlarvi soprattutto di cose serie.

Ah già, dimenticavo Dylan, il quale così ricorda ai frequentatori di sappiamo già cosa: “Attenzione ai muri del bagno che non hanno scritte”.

Ma c’è di più, se non certo di meglio. Come si fa a non riportarvi un concetto così profondo e recondito, che, fra l’altro, ci perviene direttamente dal lontano Oriente (così almeno m’hanno assicurato).

Ecco il “concetto”:

«Se vai a letto col c… che prude, ti risvegli col dito che puzza!» (Proverbio cinese).

– D’accordo, ormai ch’è andata, per quello che tu hai definito “concetto recondito e profondo”; però ora basta. Che schifo!           

State tranquilli, amici, come poco prima intendevo dire, volterò pagina, e sarà per davvero un voltar pagina.

Parola!

– Bum!

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