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Tommaso Mazzoni: L’Esercizio fisico…

L’esercizio fisico è necessario, a volte indispensabile per la sopravvivenza.

Mantenersi, quindi, in forma; seppure moderatamente per non crearsi possibili problemi nel caso in cui non intendessimo, o non potessimo più far ginnastica.

Come un giorno ebbe a dire il caro Professor Francesco Antonini di Firenze ad una sua lezione di medicina cui fui presente, il nostro fisico deve esser pronto ad affrontare possibili emergenze. Anche fra le più semplici, come quella di fare una corsa per non perdere l’autobus o il treno.

Se il cuore, non esercitato, si affatica subito eccessivamente, lo scatto, quel nostro rush mirato a consentirci di salire per tempo sul predellino del mezzo di trasporto, non sarebbe attuabile, anche se avessimo voluto non perderlo ad ogni costo.

Considerato che esercitarsi fisicamente è fattibilissimo, un tal costo, quindi, dovrebbe essere valutato per tempo. Se, poi, nel caso in cui dovessimo farci quella corsetta di cui dicevo, ci trovassimo di fronte anche all’elemento “età“, con maggior ragione, allora, dovremmo evitare forzature. Esiste perfino una formuletta per metterci in grado di evitare di non oltrepassare un certo numero di pulsazioni al minuto e conseguenti rischi; e la cifra da non superare, ossia quella che ci indica la frequenza, andrebbe tenuta sempre più bassa, man mano che il numeretto che indica la quantità dei nostri anni va invece crescendo. Lapalissiano, penserete, ma non sempre viene di tenerne conto; io lo posso affermare, anche se non sono proprio di buon esempio.

Poco fa (ed è questo piccolo episodio che mi ha fatto ragionare anche sulla necessità di mantenersi un minimo di allenamento fisico), davanti alla stazione dei treni, poco fa, dicevo, mi ha chiamato per salutarmi una cara persona: è il minore di due fratelli amici, figli di un signore, il quale, a seconda di come un certo giorno di tanto tempo fa andarono le cose, avrebbe dovuto morire circa cinquantasette anni fa.

Il babbo di questi due fratelli scampò il grave pericolo imminente della fucilazione ordinata dal Comando dei tedeschi, grazie alla prontezza di spirito e ai propri muscoli che lo portarono alla salvezza fuggendo non so come e in quale modo. Certo, corse a matto. I tedeschi avevano le armi, mica scherzavano.

Ancor oggi, sulla lapide-ricordo posta in quella che era la centrale Piazza Francesco Ferrucci della mia Città, si può leggere che la fucilazione fu ad opera della “teutonica soldataglia ignominiosamente ad essa alleati i fascisti repubblicani”.

Quel fatto spietato avvenne sul finire della Seconda guerra mondiale. Io allora ero un giovanottello, ma me ne ricordo benissimo per averne sentito discutere dai più grandi di me: sono avvenimenti, quelli, di cui non si può fare a meno di commentare e anche di ricordare.

A voi lo riporto, pur cercando di limitarlo a non tante righe.

La “soldataglia” d’oltralpe, per una rappresaglia, catturò trenta cittadini nell’empolese da essere “passati per le armi”, come si diceva. Il più anziano aveva 78 anni; il più giovane, 18. Otto di loro avevano superato la sessantina, e dieci non avevano ancora cinquant’anni.

Ma non ne faccio un questione statistica, capitemi, è solo per ricordare e fare ricordare anche i particolari crudeli. Resta tuttavia la circostanza essenziale: tutti, giovani e meno giovani, tutti coloro che furono fucilati erano assolutamente innocenti!

Morirono in ventinove. Uccisi dai colpi proditorii, furono messi al muro[1] e fucilati senza alcuna pietà.

Il trentesimo, appunto il padre dei due miei amici, com’è come non è, riuscì a fuggire con un guizzo felino, e forse zigzagando a rotta di collo per la strada; qualcuno, dice, correndo e nascondendosi attraversando orti e giardini di alcune case affacciate sulla via.

Gli spararono, anche, durante la fuga, ma per buona sorte non ce la fecero a colpirlo.

Grazie a questo, anche dopo guerra ha potuto continuare a svolgere il suo onesto e rispettato lavoro, e a tirare così decorosamente avanti la sua famiglia.

Ma – e ritorniamo così al nostro principale argomento – se non fosse stato, così è dato supporre, almeno un pochino allenato, chissà se ce l’avrebbe fatta a sfuggire dalle barbare grinfie assassine! Se avesse rallentato anche di poco la corsa, avrebbe potuto dileguarsi e nascondersi?

Gli altri 29 poveretti, evidentemente, non hanno avuto la stessa opportunità.

Ma sinceramente non so se tutto sia da attribuirsi allo scatto di fuga od anche ad altre componenti: non ho mai inteso di approfondirlo, l’episodio; se non altro, per delicatezza nei riguardi dei figli di colui che, caso pressoché unico, suppongo, non sono riusciti a fucilare. L’andare ad indagare sui particolari non ha tuttavia che un’importanza relativa.

Per chi fu fucilato, il mio accorato e amaro dispiacere; per lo scampato, tutta la mia solidarietà per avere vissuto così terribili, spaventevoli momenti.

Accennavo prima che questo mio amico, figlio di colui che riuscì a sfuggire dall’eccidio, mi ha chiamato per salutarmi quando mi accingevo a partire per Firenze, e mi trovavo nei pressi della stazione ferroviaria.

Immediata, parlando per pochi minuti del più e del meno con lui, m’è tornata alla mente la figura di suo padre, del babbo dei miei due amici.

Se non mi avesse rivolto il saluto, io, che con i miei occhiali scuri non l’avevo ravvisato, sarei andato diritto per la mia strada e non avrei avuto così la felice occasione per ricordare l’evento, pur increscioso che possa essere.

Questa volta almeno, il raccontino non è di quelli che sarebbe meglio non scriverli, l’ammetterete. A parte il minore o maggiore allenamento fisico, quando si tratti di circostanze che hanno per sfondo la morte, e di quale tipologia, seppure dovesse riguardare anche una sola persona, il fatto si elèva da solo al rango più sublime; e certo non per merito di chi lo racconta.

Se avete dato un’occhiata alla data del presente articolo, osserverete che domani l’altro, naturalmente, è il 30 novembre del 2001.

Ebbene, qui in Toscana, il 30 novembre del 1786, duecentoquindici anni or sono, per la prima volta nel mondo Pietro Leopoldo di Lorena, oltre che a far scaturire un’idea più umana della giustizia, abolì, assieme alla tortura, la pena di morte.

Questa, purtroppo, fu reintrodotta dal fascismo per i suoi scopi politici, e successivamente abrogata dallo Stato Italiano. Ma il dato di fatto è in ogni caso rimarchevole.

Già criticate, la tortura e la pena di morte, sia da Voltaire (François-Marie Arouet, 1694-1778) sia da Cesare Beccarìa (1738-1794), Pietro Leopoldo, che certamente perlomeno a quest’ultimo s’ispirò, dette in tal modo fulgido esempio di una grandezza e lungimiranza senza pari.

Grazie, civile Toscana.

Grazie, Padreterno, di avermi fatto nascere in questa Terra di artisti, di poeti, ma anche di anime sensibili.

Un vero scrittore, si afferma, non dovrebbe andare mai fuori tema; se scrittore lo fossi veramente, dovrei stare ben attento a come mi comporto, e perciò dovrei parlarvi solo per quanto avevo promesso, ossia dell’esercizio fisico.

Cosa avrei, e avreste, perso, però?

Riflessioni su ciò che la guerra può produrre. Notizie per i miei concittadini di domani che, al posto di Francesco Ferrucci, si ritroveranno il nome nuovo di una Piazza una volta intestata al Condottiero fiorentino[2]: il relativamente nuovo nome di Piazza XXIV Luglio (la cui ragione, peraltro, è opportunamente riportata su di una lapide: quella lapide, così ricca di significato).

24 Luglio 1944. Tale era il giorno in cui persone prive di colpa subirono la barbarie tedesca.

Ecco le buone ragioni che, al ricordato Voltaire, hanno fatto asserire che “Tutti i vizi di tutte le età e di tutti i paesi del globo riuniti assieme, non eguaglieranno mai i peccati che provoca una sola campagna di guerra”![3].

Empoli, venerdì 28 novembre 2001 14:47      TOMMASO MAZZONI

Per gentile concessione   www.tommasomazzoni.eu


Note e Riferimenti:

[1] Furono messi al muro – Non so perfettamente, ma di certo vennero addossati contro quel tratto delle mura antiche che circondavano l’intero “castello” di Empoli immortalato da Giorgio Vasari nel Cinquecento.

[2] Francesco Ferrucci (1489-1530) – Ucciso in battaglia dal calabrese Fabrizio Maramaldo al soldo dello straniero.
Il nome comune di maramaldo ha assunto perciò il tono sinistro che merita, perché uccise Ferrucci in modo non rispondente ai canoni guerreschi. Il condottiero fiorentino, lo ricorderete, era ormai impossibilitato a difendersi, ed egli stesso sembra avesse pronunciato la frase, divenuta storica: – “Tu uccidi un uomo morto”.

[3] Grazie, Gabriele, di avermi segnalato ciò che ha scritto il grande Voltaire. Sapevo cosa pensasse, della violenza, ed ero a conoscenza per averlo letto del suo relativo trattato (libro, peraltro, che mi regalasti proprio te). Sono concetti e parole mai spese a vuoto, credimi.

Sicuro di essere perdonato di aver usato quel modo di esprimermi nei riguardi di mio figlio, riporto, qui, ora, per voi amici, quanto farò seguire.

Non fu certo per vézzo, a proposito di quanto scrissi nel rivolgermi in modo plagale a mio figlio, in quella lirica che intitolai “Scalfitture”.

Era il lontano giovedì 12 ottobre 1978 (…avete letto bene):

“[…] Ogni sprazzo di odio, / ogni tentativo di inganno, / ogni atto di orgoglio / è un atto di guerra. / Come vorrei che l’umanità / fosse figlia mia / e sapesse comprendermi / come mi comprendi tu! /

Tu mi guardi / e, dall’angolo della attuale realtà, / scuoti la testa. So, / lo so che parlo invano, / ma parlo. / Chissà se c’è nell’ombra / un altro uomo / disposto ad ascoltar le mie parole / insieme a te”.

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