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LA FRATT…URA – di Tommaso Mazzoni

La frattura, il trauma che ho subìto, e al contempo vissuto, è avvenuta quando, all’arrivo degli americani(1), sono piombato da un mondo poco più che contadino – nel senso di semplicità quanto di positività -, sballottato in un clima che oggi si comprende pienamente, purtroppo o per fortuna, a seconda dei punti di vista, ma che, a quell’epoca furono per me, e per molti altri, ma oserei dire per quasi tutti, alquanto scioccanti.

Empoli - Via del Giglio 17-10-2011 4


 

Va infatti osservato, per comprendere meglio il punto di vista paesano della mia Città di adozione – Émpoli – che, fino al 1944, fine della seconda guerra mondiale, la vita italiana in generale aveva risentito un po’ di quella che è stata la seconda rivoluzione industriale, seppure non di molto. Ma nel mio paese (a fatica si poteva affibbiargli l’epiteto di città senza un po’ di ostentazione), la vita si era svolta in un clima piuttosto provincialotto, senza con questo dare all’accezione un significato proprio proprio riduttivo; ma così era.

E meno male che, fin da piccolino, avevo frequentato Firenze, presso i miei zii materni; poi Livorno, dai miei zii paterni, grazie alla visuale certo non ottusa dei miei genitori; per non parlare di Viareggio al seguito dei miei zii di Firenze; più alcune altre località minori. Ho detto “minori”, dato che anche il turismo non è che fosse proprio inteso come lo si può osservare oggigiorno. Poi frequentai la scuola di Rifredi (quando ero intenzionato a studiare ingegneria) e Firenze, per portare avanti i miei studi sempre di carattere scientifico; ecc.

Tuttavia anche Firenze non era ovviamente come ci si presenta ora, e anche in fatto di turismo, non era certo organizzata come oggi. Tanto per farvi un unico ma significativo esempio ad evitare di non sottrarvi troppo tempo con farraginose descrizioni, una volta – pensate – incamminandomi per Via Ricasoli, provenendo da Piazza San Marco per andare in direzione Duomo, ebbi una sorpresa a dir poco da far girare la testa. Erano le prime volte che gli zii mi lasciavano andare un po’ a zonzo per la Città. Tenete anche presente che non c’erano tutti i pericoli che ci sono oggi. Camminavo perciò tranquillamente, gingillandomi sul marciapiede di sinistra, percorrendo la via con alle spalle Piazza San Marco, appunto, e ficcando il naso, qua e là e per ogni dove, come spesso mi càpita di fare ancora, sbirciando ogni angolo, ogni portone, ogni giardinetto o costruzione che avesse attirato la mia attenzione. Ebbene, in cosa mi imbatto, d’emblée, facendo il mio spontaneo “front’a sinistr”? Niente code lungo il marciapiede o gente per la strada, data anche l’ora un po’ bruciata; niente persone che entravano od uscivano da quel grosso portone che sembrava quello di un magazzino. Vi entrai, timidamente, perché era pur sempre una violazione di domicilio. E anche se una siffatta terminologia non faceva parte certamente del mio lessico, sapevo in ogni caso di fare cosa insolita e non corretta entrando in quell’androne semioscuro, ovvero… in casa d’altri.

Riguardo al numero del portone d’ingresso, ora lo so: era quello che corrisponde all’attuale n. 60.

Spingevo i miei passettini, timidamente, verso il fondo alquanto oscuro del lungo e largo corridoio quando, tutt’a un tratto, mi si staglia e ti vedo davanti una statua che mi apparve bella quanto gigantesca ed imponente. Fu così – certo chi conosce un po’ Firenze l’aveva capito dal nome della via che ho rammentato – fu così, dicevo, che vidi, che dico, che scoprii il David di Michelangelo! Non lo conoscevo, lo confesso. Da quel bambino dei miei tempi com’ero, era certo consentito di non conoscerlo, come non conoscevo il cosiddetto “David” di Donatello, che si trovava e si può ammirare tuttora nella medesima Città; e non conoscevo – né potevo conoscere – tante altre opere che ora, grazie alle numerose visite fatte in molti luoghi, ho potuto godermi, sia che si tratti di sculture, pitture, o costruzioni architettoniche ed altro; come pure che riguardino altre “discipline” artistiche.

O me, me fortunato, per potere, quando voglio, e tuttavia assai spesso, frequentare luoghi in cui, vagabondando o sbagliando strada, si può incappare in siffatte opere! Come potrò mai ringraziare chi mi ha fatto nascere qui, come potrò mai…

La nostra bella lingua italiana non si può sbagliare di molto perché è il mio vernacolo o dialetto come si voglia chiamare; e la gente che quasi ogni giorno mi sta intorno, assai spesso ne sa assai più di me. Agevolato anche in questo. Cosa volere di più!

A questo proposito (alludo quindi all’aspetto letterario), m’è venuto alla mente un fatto, e perciò per il suo intrinseco contenuto devo per forza raccontarvelo; però non so se l’ho già scritto da qualche altra parte: se sì, pazienza, ma vale in ogni caso la pena di ripeterlo.

Ecco, mi trovavo a una lezione – però ora parlo di questi tempi, non di quando ero ragazzo – e quando il docente di storia dell’arte, il Professor Alberto Busignani, ad un certo momento, parlando di una pittura del grande Giotto (1267-1337), per l’esattezza di un affresco (scusatemi: non rammento quale) del ciclo assisiate approntato per il primo Giubileo della storia della Chiesa, del 1300 introdotto da Bonifacio VIII, il papa che indusse alle dimissioni[2] Celestino V, iniziò a citare a memoria una terzina della Commedia di Dante.

Era di quelle meno conosciute. Sinceramente non la ricordavo nemmeno io (ma non avrete mica pensato che possa sapere tutto Dante a memoria?!), e quindi mi aspettavo che questo bravissimo docente portasse a termine, com’era logico pensare, la declamazione, diciamo così, da solo, della citazione dantesca. Lo credereste? Un insieme di voci, quasi all’unisono, si levarono nell’aula ricalcando e a momenti addirittura anticipando quanto il Professore stava appunto citando.

Per me fu una lezione nella lezione: da lì capii quanto realmente cólto sia il popolo fiorentino e di quale levatura, anche se a quale esatto livello non saprei dirvi. Di certo, Dante (1265-1321), lo conoscevano, e bene, evidentemente. Il dotto Giacomo Leopardi (1798-1837), a conferma di ciò, si espresse nel modo seguente: “Firenze (…) la città più culta d’Italia, e dove il popolo in particolare è più intendente e più civile(…)”, da Prose, Pensieri, IV).

Da sempre, nonostante l’idiosincrasia politica di una certa parte, Dante è stato amato, dai fiorentini, specialmente da quando le calde vicende storiche si sono un po’ smorzate, acquetate. Pensate che, come ho già parlato nell’articolo “Promessa di Ritorno” nel libro «Così il Tempo Presente», il Duomo, la Cattedrale di Santa Maria del Fiore, era, oltre che luogo di culto e di assemblea, quindi di aggregazione, come si direbbe oggi, anche l’ambiente prediletto in cui venivano tenute anche regolari letture della Divina Commedia. Così, almeno, m’è stato riferito da fonte attendibile.

Un piccolo quadro di Firenze d’anteguerra?: È di Dino Campana (1885-1932). Ve lo riporto perché ne vale la pena. Sentite:

FIRENZE

Entro dei ponti tuoi multicolori

L’Arno presàgo quietamente arena

E in riflessi tranquilli frange appena

Archi severi tra sfiorir di fiori

Azzurro l’arco dell’intercolonne

Trema rigato tra i palazzi eccelsi:

Candide righe nell’azzurro: persi

Voli: su bianca gioventù in colonne

Scusandomi di questo fin troppo ampio inciso, dovuto al fatto che quando viene sollecitata la corda “Firenze” essa vibra per me anche un po’ più del necessario, rientro nel tema dell’arrivo delle truppe per riferirvi che – nonostante non mi ritenessi così provinciale -, quelle maniere: militari, sì, ma che denotavano un background, un trascorso di civiltà sui generis che poco aveva a che spartire con le nostre abitudini, colpirono la nostra fantasia, il nostro immaginario, spostandolo a tal punto da supporre – e forse a quel tempo lo erano certo più di ora – lande tanto diverse dai nostri luoghi.

Ora, grazie, tutto appare così chiaro: sia perché fare un volo negli USA non costa nemmeno un occhio della testa, sia perché, volendo, si possono vedere filmati di promozione turistica che ti spiattellano l’America tale e quale essa oggi è.

Allora perfino le musiche mi apparvero così diverse. Eseguivano tantissime note ad una velocità strabiliante, modi inusitati nella nostra vecchia Europa. Mi ricordo un particolare, che riguarda un insegnante di musica che trovavo quando andavo alle lezioni di clarinetto presso la Filarmonica Giuseppe Verdi di Empoli. Arrivò a sostenere che i pezzi erano eseguiti ad una velocità più bassa per poi, con artifici tecnici (si era appena sentito parlare dei primi registratori di suoni), riportarli su disco in modo che sembrassero eseguiti a maggiore velocità. Non stavano così, le cose, ma da come la maniera di eseguire era diversa dalla più accentuata flemma in Italia e in Europa, quelle musiche ci apparivano non soltanto veloci, ma anche fin troppo ricche di accordi stridenti da rasentare la cacofonia, inaccettabili all’orecchio impreparato dei musicisti classici, nel nostro universo musicale in cui perfino le canzoni avevano un sapore così romantico da parer romanze, ammodernate quanto si vuole, ma dallo stile tardottocentesco anziché no.

La frattura del secolo apparve così a me, come agli altri miei coetanei, durante lo svolgersi della seconda guerra mondiale, e se vogliamo buttar giù qualche data, collocatela pure a partire dalle invasioni degli alleati (ossia, gli americani) che, nell’anno 1944, con le prime teste di sbarco (che venivano impropriamente dette teste di ponte) in sud e centro Italia, man mano si spostavano verso nord, parimenti ricacciando il nemico tedesco verso nord e portando seco tutte le novità di cui vi ho potuto parlare soltanto in parte: ma certo avete capito, se non proprio tutto, almeno il clima che si andava sviluppando e lo spirito con il quale noi, dell’epoca, lo accoglievamo.

Naturalmente mi sono rivolto in particolare a chi, al momento del passaggio del fronte magari non era ancora nato o era così piccolo da non poter ricordare. Per gli altri, lo so, purtroppo sono rievocazioni dolorose, specie per quelli, come alcuni amici miei carissimi, che hanno avuto la sventura di perdere o di veder menomato un loro caro.

Fra coloro che certamente hanno sofferto tantissimo, senza intendere di far torto agli altri, mi sento di nominare solo Delfo Santini, ancor oggi apprezzato medico, ormai fiorentino di adozione: è stato colpito, penso più di tanti altri, dall’infame sorte.

Questo mio amico fraterno, durante il bombardamento della mia Città di quel tragico 26 dicembre 1943 – eravamo ancora sotto i tedeschi (la liberazione avvenne nel corso dell’anno successivo) – perse, nel volgere di pochi minuti e di una sgrandinata di bombe sganciate dagli aerei alleati (questo il dramma nel dramma), il babbo, la mamma e una delle due sorelline. Io conoscevo tutti loro e frequentavo la famiglia. Oltretutto mi volevano tanto bene e io contraccambiavo quel loro affetto.

Ma meglio tagliar corto: il ricordo è ancora vivo, dopo tutti questi anni, e rischierei di rattristare anche voi.

Questa parentesi, aperta nel nome del ricordo dei miei amici che più di me hanno sofferto, mi sembrava, più che doveroso, da non doversi nemmeno rintuzzare nel mio più intimo sentire: è un ricordo, sono reminiscenze che porterò per sempre con me. Se non si sono cancellati in tutti questi anni…

Ma torno ora a riprendere il discorso interrotto quando stavo parlando del clima che andava instaurandosi.

E le conseguenze, o i risultati, secondo il punto di vista, non si sono fatti attendere molto. Così come si è trasformata l’antica civiltà giapponese – penso che oggi la città di Tokyo non differisca molto da un’altra città americana come New York -, così la nostra Europa, ha rimodellato e ridefinito un po’ le vecchie radici, dando una risultante di progresso o presunto tale (se non verrà posto un freno a tante attività ci accorgeremo presto se sarà reale) che non ha più quasi niente a che vedere con la mia terra di anteguerra.

Il secolo XIX si è forse protratto fino alle soglie degli anni ’30/40’ del 1900: il XX è partito dal 1944, sia pure, come si dice, estendendosi, o progredendo, a macchie di leopardo.

Potevo intitolare questo mio scritto «Demarcazione», ma in realtà, più che di confine, mi pare che si sia trattato proprio di una frattura, con tutti i traumi che tale terminologia reca in sé.

Non riesco a giudicarlo molto bene, ma mi parrebbe che, nella storia dell’umanità, faccende analoghe all’avvento dell’atomica non ce ne siano state gran che. Realizzazione dall’impiego perverso, che ha prodotto altresì la consapevolezza che l’uomo, nella sua follia, avrebbe potuto, da quel momento in poi, anche demolire, volendo, non solo la propria esistenza, ma anche quella del luogo dove vive.

Dell’atomica non ne avevo parlato, e nemmeno qui intendo trattenermi, ma vi riporto, giusto per ricordarvelo, che un tale fatto fu decisivo per la risoluzione del conflitto: il 6 agosto 1944 avvenne lo sgancio della prima bomba, su Hiroshima; il 9 agosto, della seconda, su Nagasaki, facendo perciò decidere – ma per le conseguenze mortali di quelle popolazioni potremmo anche aggiungere “finalmente” – l’imperatore giapponese ad accettare la capitolazione, che avvenne il 2 settembre 1945, dopo anche che, tre giorni prima, ossia il 30 agosto, gli Americani erano entrati in Tokyo.

Oltre a tutto ciò, scoperte come gli antibiotici, il transistor (che aprì la strada alle più moderne tecniche elettroniche), ed altre ancora che non mi sovvengono, ma che ce ne sono sicuramente, in questa parte di secolo, ritengo che siano almeno sufficienti a giustificare il titolo apposto a questo mio articolo.

Ma non pensiamo che sia finita qui, giacché più di una volta era stato “sancito” che tutti i passi erano stati fatti e che ormai non ci sarebbe stato più niente da inventare…

 

Empoli, mese ed anno di pubblicazione: aprile 1998

TOMMASO MAZZONI – LA FRATTURA

TUTTI I DIRITTI SONO RISERVATI. Pubblicato per gentile concessione dell’autore

 


Note e Riferimenti:

[1] «Gli Americani». In tal modo erano chiamate, per antonomasia, le truppe di liberazione (o d’invasione, secondo il punto di vista) dato che perlopiù erano dell’America del nord, ossia degli Stati Uniti o USA (United States of America).

Vi rimanderei però, per alcuni particolari che non sto a ripetere, all’articolo “Un po’ a Tentoni” – dal mio libro «Un Bicchiere Mezzo Vuoto» – per un’ulteriore descrizione di quello che è stato il mio modo di vivere nel momento del passaggio del fronte della 2ª guerra mondiale. Óh, attenti, eh: notare che, quando fu firmato l’armistizio della prima guerra mondiale, io non ero ancora nato, seppure per uno sfalsamento di… soli dieci anni! (Ossia: 1918, fine della 1ª guerra mondiale; 1928, nascita di chi vi scrive) Ci manca poco, però, che non aveste avuto una descrizione “oculare” anche di episodi relativi alle guerre puniche!

Questo no… via.

Le guerre puniche (264-146 a.C.), ovvero quelle relative a Cartagine contro Roma, ovviamente, si risolsero con la totale supremazia di Roma sul Mediterraneo, assai ambìto anche dai cartaginesi.

Cartagine, già dei fenici, ricostruita, fu poi romana (ricordate delenda Cartago?) e paleocristiana. In seguito fu conquistata dai barbari (439), dai bizantini (533) e dagli arabi (638).

[2] – Di Papa Celestino V ne ho già parlato verso la metà della nota n° 1 del capitolo “Curiosità… Parentali”, ancora nel libro intitolato «Un Bicchiere Mezzo Vuoto». Ma qualora, non conoscendo l’argomento (però mi riferisco solo a quei pochi che per qualche ragione non vi avessero mai rivolto l’attenzione), interessasse trarne qualche sparuta nozioncina, possono leggere la nota citata. Non vi è molto, per il vero, ma è tuttavia sufficiente, credo, per comprenderne la tragedia; perché pur di una vera e propria sciagura si è trattato.

 

 

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