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Giuliano Lastraioli: La misteriosa morte dell’onorevole trovato cadavere nell’Ormicello

 

L'Onorevole Giuliano Ricci, misteriosamente morto in Ormicello il 27 settembre 1848
 
Pubblicato sul Il Tirreno, 31 Gennaio 2010
 

C’è da chiedersi perché mai Renato Fucini, nei suoi ricordi, nulla dica a proposito dei propri ascendenti materni, mentre si pro­fonde a narrare le vicissitudi­ni dei parenti paterni. Eppu­re erano personaggi a dir po­co interessanti e pittoreschi, con una storia familiare di tutto rispetto e, per certi versi, romanzesca.

Si comincia dalla bisnonna russa, una Carolina Timofieva Kaslaninova, figlia di un ammiraglio dello zar, madre della nonna Elìsabetta Carlotta Ricci, sorella del patriota livornese Giuliano Ricci e moglie del droghiere Giobatta Nardi, oriundo di Livorno, ma padrone di botteghe in quel di Empoli, repubblicano accanito in terra reazionaria, a cui il nostro municipio ha addirittura dedicato una strada nella frazione di Marcignana in riconoscimento delle sue pur discutibili benemerenze risorgimentali.

Il dottor David Fucini, medico venturiero, aveva sposato Giovanna Nardi, figlia maggiore di Bista (così veniva abitualmente chiamato il Giobatta). Dalla loro unione era nato Renato. Non sembra che il futuro Neri Tanfucio abbia nutrito soverchie simpatie per i parenti della madre. In effetti la famiglia Ricci, sebbene di buon censo, si segnalava per continue stranezze. La bisnonna russa era arcigna, nevrastenica e manesca, in una occasione aveva percosso piuttosto duramente la nuora, moglie del figlio avvocato Giuliano. I Nardi, poi, non erano da meno: Giobatta era sempre in lite con qualcuno e suo figlio Paolo, capo istruttore della banda municipale di Empoli, dava di matto al punto che il Tribunale collegiale di San Miniato, nel 1850, autorizzò il suo ricovero nel manicomio fiorentino di Bonifazio.

La confluenza fra Orme e Ormicello, dove fu rinvenuto il cadavere del Deputato Giuliano Ricci

Non è azzardato concludere che Renato Fucini si vergognasse un po’ del lato materno della sua genitura. A sostenere questa ipotesi (che tale rimane) si aggiunge la morte tragica del prozio Giuliano Ricci, fin qui dimenticato dalle nostre parti e adesso riscoperto grazie al suo diario, ora integralmente pubblicato per le cure, attente e meticolose, del professor Mario Baglini (“Livorno 1848 — Le Memorie di Giuliano Ricci”, Livorno, Books & Company, ex Belforte, dicembre 2009, euro 30).

Il Ricci, coetaneo e collega di Vincenzo Salvagnoli (entrambi nati nel 1802), aveva collaborato all’Antologia del Vieusseux e pubblicato saggi di argomento economico e amministrativo.

Nel marzo del 1831 era stato arrestato dalla polizia granducale insieme al cognato Bista Nardi perché coinvolti in una cospirazione politica di stampo mazziniano. La loro carcerazione era durata pochi giorni. Il governo toscano era di manica larga con i suoi oppositori. La soffiata era partita dal proposto di Empoli, che aveva avuto una confidenza da parte di un rivoluzionario pentito.

Successivamente Giuliano Ricci era stato in buoni rapporti con Francesco Domenico Guerrazzi, ma il loro sodalizio, negli anni Quaranta, si era deteriorato fino alla rottura. Praticamente i due si contendevano la primazia fra i patrioti livornesi. Il Guerrazzi, detto Pelliccione, fu il tribuno dell’estremismo repubblicano; il Ricci, detto Cappellone, scelse il campo più moderato delle riforme costituzionali. Da allora fra i due fu guerra aperta, alla quale il Ricci si sottraeva spesso, rifugiandosi nel suo “buen retiro” di Gricciano, in Valdorme, dove gestiva col fratello Paolo una tenuta con villa, fattoria, sette poderi a mezzadria e 17 camporaioli, che gli consentivano di integrare l’incerto reddito della professione forense.

Nel ‘48, l’anno dei portenti, il morso della politica spinse Ricci nell’agone elettorale, anche per dimenticare una sciagura domestica (la morte di un figlioletto per tubercolosi miliare). Corse per la deputazione di Castelfiorentino, ma fu pesantemente trombato dal Ridolfi. Ripiegò sul collegio di Dicomano e fu eletto membro del Consiglio Generale toscano con 83 voti su 93. Il “partito esaltato” si era astenuto dal votare per il discredito del suo candidato. Non meraviglino cifre così basse: allora votava soltanto chi aveva il censo.

La scelta moderata del Ricci non era piaciuta affatto al cognato Bista Nardi e al nipote Paolo, entrambi fautori del Guerrazzi e sobillatori dei campagnoli. In un passo del diario, alla data del 21 settembre 1848, Ricci si duole dei loro eccessi. Conviene riportarlo per esteso. È quasi una lezione di politica: «Mio nipote Paolo e suo padre sono divenuti non so come repubblicani fanatici e ciechi, e al solito dei partiti si guardano accuratamente dall’istruirsi leggendo. Il Paese li avversa e rischiano trovarsi a dei dispiaceri. Paolo a Gricciano cerca proseliti fra i braccianti venuti a lavorare in fattoria: io ne combatto con pieno successo le insinuazioni. Il mio argomento è semplice: poter essere la repubblica governo buono al par della monarchia tutte le volte che abbia consenso dell’universale: esser di tutti il peggiore il governo contrario al volere dei più; esser dunque pessima ora per Italia la repubblica contro cui stanno le moltitudini; esser delitto della minorità il non adattarsi ai voleri della maggiorità, ora che a ciascuno è dato di esporre e sostenere con la discussione pacifica la propria opinione; esser dunque delitto nei repubblicani toscani il fare ora dei tentativi E venendo a parlar del governo: esser reo di gravi torti il popolo non meno del governo, poiché né l’uno né l’altro fecero il loro dovere».

La mattina del 26 settembre 1848 Giuliano Ricci giurava in Consiglio come deputato di fresca nomina. Col treno della Leopolda (da poco attivata) rientrava a Empoli in giornata per la fiera annuale. A sera si poneva in cammino per tornare a Gricciano, un tragitto di circa undici chilometri, sia che scegliesse la comoda via di Valdorme, sia che prendesse la disagevole via di Paterno, lungo il rio di Ormicello. Si ignora se a piedi, a cavallo o con un calesse. E si ignora anche il percorso effettivamente compiuto.

La mattina dopo il suo cadavere venne rinvenuto in Orme, ma non si conosce il punto preciso. Fu constatata la morte per annegamento.

Sulla dinamica (disgrazia, omicidio, suicidio) non si sa nulla dai documenti coevi sinora reperiti. La polizia empolese tace; il podestà di Montespertoli, Tognini, rimise al Pretore di Empoli un rapporto tardivo che assodava la tesi della disgrazia. Vi si parla della presenza al fatto del fratello Paolo e del suo “dottore”, non meglio precisato, ma non si dice nulla del loro comportamento nella circostanza. È troppo poco per avere un quadro non sospetto di quanto avvenuto. I giornali di Livorno e di Firenze, nonché il presidente dell’Assemblea toscana, Vanni, si adagiarono a loro volta sulla versione della disgrazia.La Rivista Indipendentedi Firenze scriveva il 29 settembre che il neodeputato era stato travolto dalla “forza delle acque mentre guadava il torrente Ormicello per recarsi alla sua villa di Cricciano presso Empoli” ed era morto annegato. Aggiungeva che “la dolorosa sua fine e le strane circostanze che la produssero, lo fecero compiangere, anche da chi non lo conosceva”. Lodava il suo ingegno, la sua bontà, la sua onestà e il suo amor di patria; lamentava l’immaturità della perdita, ma non approfondiva la pur adombrata stranezza del funesto accadimento.

Ovviamente cercheremo ancora negli archivi di Empoli, di Firenze e di Livorno per tentar di chiarire il mistero. A noi questa storia dell’annegamento accidentale in Orme (o, peggio ancora, nel rio di Ormicello) nell’atto di guadare il corso d’acqua non va giù facilmente e ci intriga assai.

Affogare in Orme è più difficile che volare, soprattutto nel suo tratto superiore, dove il livello dell’acqua è estremamente basso anche nei rari momenti di piena. I guadi d’Orme sono fitti e agevoli. Al traverso di Gricciano non c’era nemmeno bisogno, di guadare, perché anche allora esisteva un ponticello sul torrente. Sull’Ormicello non insistiamo neppure. È incre­dibile che un cadavere venga trasportato a valle dalla corrente fino alla Farfalla, sia per gli ostacoli della rigogliosa vegetazione spontanea che per la tortuosa ristrettezza del rigagnolo. In quelli pozzanghere si affoga solo se qualcuno ci preme la testa sott’acqua. Allora conviene pensare alle ostilità politiche anche violente, che il Ricci aveva subito nella turbolenta Livorno, nonché ai conflitti latenti e palesi in àmbiti familiare e aziendale. Coltivare un sospetto è legittimo. Porteremo avanti l’inchiesta. A pensar male si fa peccato, ma il più delle volte ci s’indovina.

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