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Giuliano Lastraioli: Idreno e Rigoletto. Vite parallele

“Idreno e Rigoletto. Vite parallele dei due empolesi più tosti del Novecento”.

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Relazione di Giuliano Lastraioli, tenuta il 23 novembre del 2006 presso il Rotary di Empoli, e pubblicata nel “Foglio Informativo” n. 6, novembre 2006

 Idreno Utimpergher, empolese doc nonostante il cognome ostrogoto, e Rigoletto Martini, pressoché coetanei e vissuti nella prima gioventù a distanza fisica piuttosto ravvicinata, non si conoscevano neppure e mai si sfiorarono nel corso delle successive drammatiche vicende che li coinvolsero.

Idreno, nato in via del Giglio nel 1901, figlio di un maestro vetraio di Murano e di una Dicomani discendente di uno dei pochi volontari empolesi nell’epopea risorgimentale, aderì al fascismo dopo l’eccidio del 1 marzo 1921 e, per qualche tempo, fu anche squadrista. Successivamente non ebbe mai incarichi di rilievo nel Fascio e si dedicò prevalentemente nell’attività di organizzazione sindacale, senza però assurgere a cariche importanti.

Rigoletto, nato in una famiglia mezzadrile di Santa Maria a Ripa, non andò oltre la seconda elementare e trascorse la propria adolescenza (era nato nel 1907) nel duro lavoro dei campi, a contatto con un mondo impermeabile al nuovo corso politico e votato a refrattaria ostilità verso il fascismo. Il suo curriculum è, a dir poco, straordinario. Aderente al partito comunista clandestino, esule in Francia e poi nell’Unione Sovietica, frequentò a Mosca la scuola di partito, dove si segnalò per disciplina e obbedienza ai dettami dei superiori, al punto che, negli anni Trenta, lo troviamo addirittura cooptato nel comitato centrale del PCd’I con lo pseudonimo di “Tuti” e con incarichi sempre più prestigiosi, fra cui i collegamenti del centro dirigente col Komintern di Dimitrov. Alloggiava con Togliatti all’Hotel Lux e svolgeva anche compiti di vigilanza, temutissimo per la sua durezza inquisitoria nei confronti dei compagni dissidenti all’epoca delle feroci purghe staliniane. La sua ascesa ai vertici del partito è misteriosa e anche tenebrosa. Inviato in Jugoslavia allo scoppio della guerra per contatti con Tito, fu vittima – dopo una rocambolesca evasione da un lager croato – di un oscuro tradimento da parte di alcuni compagni e venne praticamente consegnato alla polizia italiana. Condannato a ventiquattro anni di reclusione dal Tribunale Speciale, finì i suoi giorni nel penitenziario di Civitavecchia il 20 giugno 1942 per un male incurabile all’intestino.

«I suoi ultimi pensieri», scrisse il senatore Remo Scappini, «furono per l’Unione Sovietica e per il suo geniale capo, compagno Stalin».

Idreno Utimpergher, che nel frattempo aveva italianizzato il suo cognome in Utimperghe per evitare sospetti razziali, emerse dalle nebbie dell’anonimato proprio nel periodo di massima crisi per il partito fascista.

Aderì immediatamente alla R.S.I. dopo l’8 Settembre, mentre si trovava a Trieste, dove si distinse con prorompente personalità al comando delle prime squadre del fascio repubblicano. Dopo varie avventure nel Veneto, arrivò a Lucca subito dopo la caduta di Roma e si installò al palazzo littorio come capo indiscusso della città e della provincia, fondando poi la 36a Brigata Nera “Mussolini”, di cui sono ben note le gesta in Garfagnana e quindi nella valle del Po. Dotato di un vero carisma presso i propri uomini (si leggano in proposito le memorie di Piero Sebastiani) fu uno degli indiscussi protagonisti della fuga di Mussolini verso Dongo, prendendo lo stesso Duce a bordo dell’inverosimile autoblinda fatta in casa che era stata allestita in quel di Piacenza sul telaio di un camion Lancia 3Ro.

Insieme a Pavolini, Idreno resisté al blocco dei partigiani e fu catturato col mitra fumante in mano, un MAS francese che la leggenda metropolitana vorrebbe passato al colonnello Valerio per l’esecuzione di Mussolini.

Utimpergher venne fucilato nel pomeriggio del 28 aprile 1945 sul lungolago di Dongo, insieme a Bombacci, a Barracu, a Pavolini e agli altri gerarchi catturati. Due notti prima aveva avuto l’ultimo incontro amoroso con Elena Curti, figlia spuria – a quanto si dice – di Benito Mussolini. Il cadavere di Idreno finì con gli altri a Piazzale Loreto. Non fu appeso, ma contribuì ad alimentare quella che Ferruccio Parri ebbe a definire «una macelleria messicana”.

Idreno e Rigoletto, seppure sconfitti, terminarono la propria esistenza in perfetta coerenza con le proprie scelte di vita, giuste o sbagliate che fossero. Poco prima di morire Idreno disse al giovane gregario Piero Sebastiani: «Gente come me e come te, a seconda dei giochi del caso, avrebbe potuto trovarsi indifferentemente con i fascisti o con i partigiani, ma certamente mai nascosti in una cantina o in una sacrestia». Rigoletto aveva già mandato a quel paese Giancarlo Paietta e Remo Scappini nel carcere di Civitavecchia. Volevano conoscere i retroscena di Mosca, ma lui, nell’ultimo messaggio scritto su una cartina da sigarette, gli mandò a dire che «di certe cose non si può parlare». E questo fu tutto.

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