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Due anniversari – di Claudio Biscarini

Quest’anno si sono celebrati i 100 anni dell’inizio, per l’Italia, della Prima guerra mondiale e i 70 anni, per l’Europa e il mondo, della fine della Seconda guerra mondiale.

Oratorio di San Rocco distrutto dalla Guerra
Oratorio di San Rocco distrutto dalla Guerra

claudio biscarini

di CLAUDIO BISCARINI        segui  su       Facebook 


Trenta anni di differenza tra queste due date: trenta anni in cui l’Umanità ha vissuto due delle, fino a questo momento e speriamo per sempre, più grandi tragedie della sua lunga storia.

La “Grande Guerra” come la seconda, iniziò con la speranza “per Natale saremo tutti a casa” nell’agosto del ’14. I soldati francesi vestivano sempre come nel 1870: chepì e pantaloni rossi, ghette bianche, cappotto con le code blu; i Landser tedeschi avevano ancora in testa il Pickelhaube, l’elmetto col chiodo tipico della fanteria di linea prussiana. Lo avrebbero sostituito alla battaglia della Marna nel 1915. Noi dovevamo vedercela con gli austriaci con le nostre fasce mollettiere e l’elmetto Adrian francese, ma anche il nemico non era tanto meglio equipaggiato. Solo che noi sostammo un po’ troppo “nelle radiose giornate di maggio” e loro si attestarono sulle montagne e sulle doline carsiche e per sloggiarli ci volle che la guerra durasse tre anni e passa. Fu così che scoprimmo i ta-pum dei cecchini dell’imperatore Cecco Beppe: un colpo, una testa.

La Prima guerra mondiale fu un conflitto “totale”. Si combatté sui mari, sulla terra e nel terzo elemento, il cielo. Coinvolse anche i civili uomini e donne indifferentemente vuoi perché si trovarono in zona di operazioni vuoi perché contribuirono all’economia di guerra nelle fabbriche e nelle campagne. Fu una guerra tecnologica, durante la quale  si sviluppò la guerra sottomarina, la guerra aerea, gli assalti dei fanti furono sovente spezzati dal fuoco della mitragliatrice e in last but not least il Tanko, il Panzer, il carro armato. Lo chiamarono Tank proprio perché i primi erano simili a enormi serbatoi. Avrebbero cambiato il volto della guerra, ma non della Prima bensì della Seconda.

Per la prima volta, nel 1917, arrivarono gli americani in Europa, e anche in Italia col General Major Eben Swift ed Ernest Hemingway. I dogfaces, come si definivano, vestiti come nei film di Stallio e Ollio, col cappello Montana Peak, quello del Drill Sergeant di Full metal Jacket per capirsi, e l’elmetto a padella dei britannici. Pare che il generale Jonh Joseph Black Jack Pershing, il loro comandante che aveva dato la caccia a Pancho Villa, quando sbarcò  abbia detto “La Fayette, nous voici! Ricordando l’aiuto che francese Marie-Joseph Paul Yves Roch Gilbert du Motier, marchese De La Fayette aveva dato alla rivoluzione americana. Per primi, come è nella mitologia americana, sbarcarono i Marines della 1st Division, seguiti poi dalla 1st US Infantry Division, the Big Red One, e da altre divisioni. Fecero la differenza? Sicuramente portarono forze fresche agli Alleati franco-inglesi le cui forze erano stremate.

Nella Seconda guerra mondiale si iniziò dove si era finito con la Prima: con i carri armati e l’aviazione. Ma fu la fanteria “regina delle battaglie” che patì, su ogni fronte, la botta maggiore. Noi, come sempre, entrammo dopo e, questa volta, dalla parte decisamente sbagliata con un esercito a pezzi a causa delle campagne “gloriose” di Etiopia e di Spagna che ci erano costate assai in termini di economia (la guerra si fa coi soldi prima che con le armi) e di mezzi. I nostri non erano addestrati, o addestrati poco; i quadri ufficiali e sottufficiali erano pieni di richiamati che “tenevano famiglia”(ricordate il sergente Fornaciari di Tutti a casa?), la Regia Marina era la nostra arma più potente, ma non aveva Radar e i nostri marinai non sapevano sparare al buio.

La Regia Aeronautica sulla carta era potentissima; nei cieli, dove già scorrazzavano Hurricane, Spitfire e Messerschmitt 109, un po’ meno. Eppure, tutti fecero per ben tre anni il loro dovere. Fecero spesso anche di più, con le stesse scarpe sia in Libia che in Russia e con lo stesso fucile. Eppure, a loro non è toccato nemmeno il riconoscimento che ebbero i Cavalieri di  Vittorio Veneto! Fu una guerra fascista, si è detto. Certo, ma le Forse Armate erano italiane e a chi l’ha combattuta, in gran parte, del fascismo importava poco. Anni fà si parlò di dare un piccolo riconoscimento anche a loro. Mi misi in moto per mio padre che quella guerra se l’era fatta, ma non ci ho capito granché e credo che sia andato tutto alle ballodole, come si dice.

E i tedeschi? Partirono di gran carriera nel 1939 e nel 1940; la Polonia, La Norvegia, Il Belgio, l’Olanda e, soprattutto, la nemica di sempre: la Francia ai loro piedi. Hitler, che non si mosse mai dai suoi quartieri generali, da Berlino e da Berchtesgaden il nido dell’aquila, passò velocemente per Parigi silenziosa e si fece fotografare nella nebbiolina mattutina al Trocadéro. Poi, in Africa si persero nelle sabbia di El Alamein e in Unione Sovietica nella neve di Stalingrado. Non si sarebbero ripresi mai più. Lo Herrenvolk, la razza padrona, alla fine annoverava nelle file delle sue armate, anche tra quelle delle Waffen-SS, una marea di “sottouomini” come li avrebbero definiti nel 1939.

Tutto finì fra fuoco e fiamme, nel bunker sotto la Nuova Cancelleria del Reich il 30 aprile 1945 quando il Führer e la sua sposa si suicidarono, dando modo a chi voleva di scappare da quella trappola mortale. Qualcuno ce la fece, altri morirono nel tentativo, altri li mandarono nei campi di prigionia russi non proprio dei paradisi in terra. Di loro restavano i milioni di morti nei Lager e sui campi di battaglia, il dottor Mengele, SS-Hauptsturmführer ad Auschwitz con i suoi esperimenti terrificanti, una nazione divisa in quattro, con una ex capitale divisa in quattro e un muro che, fino al 1989, definiva due mondi e due culture. Quel 30 aprile Mussolini e la Petacci, con altri, già erano stati appesi in Piazzale Loreto in quella macelleria messicana che non fece onore a nessuno, tanto meno ai milanesi che nel dicembre 1944, solo 5 mesi prima, lo avevano acclamato ancora.

Restavano i giapponesi: i sudditi del Tenno. Loro la guerra l’avevano iniziata molti anni prima del 1939 contro la Cina, e la loro Unità 731 aveva sperimentato già su cavie umane cinesi  cose indicibili. Poi lo faranno anche con i prigionieri Alleati caduti in loro mani. La loro resistenza è stata definita fanatica, e in verità lo è stata. Non capirono che avevano perduto tutto nemmeno dopo che il generale americano Curtiss Le May con le sue superfortezze B 29 gli aveva spianato le città, dopo Hiroshima e Nagasaki e quando l’imperatore aveva già deciso la resa: tentarono un colpo di stato per continuare a combattere. Molti di loro continuarono a restare nelle giungle e sulle isole per anni, non credendo che la guerra fosse finita.

Dobbiamo rendergli onore? Non più di tanto. Quando una nazione ha capito che non può più combattere, non ha più nessuna possibilità non dico di vittoria ma nemmeno di salvare il salvabile, il dovere di un governo responsabile è di salvare la maggior quantità di cittadini e di militari, che saranno coloro che dovranno rimettere in piedi la nazione dopo la pace. Per fortuna, il mondo non finiva con la resa, almeno fino ad oggi. Noi lo facemmo, male, malissimo, ma lo facemmo. Poi le cose presero una piega diversa, molto tragica, ma l’intento iniziale era giusto. Non potevamo resistere di più e se avessimo continuato, oltre ad avere molti più danni e morti (vedere per credere le città tedesche e giapponesi) forse saremmo stati divisi in quattro come la Germania e l’Austria.

Nel passato, quando la guerra aveva ancora una parvenza di cavalleria, dopo aver sostenuto l’assedio con onore se il vinto riconosceva di essere tale, spesso veniva fatto uscire dalla città assediata con le bandiere al vento e gli uomini in arme e alla città stessa si risparmiava il sacco e bordello. Così accadde a Siena il 21 aprile 1555 quando Blaise de  Monluc, comandante delle forze franco-senesi in città, venne accompagnato con i suoi soldati e circa seicento famiglie di patrizi senesi dal comandante delle truppe mediceo-spagnole Gian Giacomo Medici detto il medeghino sulla via di Montalcino ,a bandiere spiegate, dove la libera Repubblica di Siena resistette fino alla pace di Cateau-Cambrésis del 1559. Altri tempi, altri uomini.

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