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Claudio Biscarini: Montaperti, 4 settembre 1260.

Era la terza volta che l’esercito della rivale guelfa Firenze si presentava davanti alle mura di Siena. Ora, però, le richieste che due ambasciatori avevano fatto in San Cristoforo  ai Signori Ventiquattro della Repubblica erano inaccettabili, volevan dire la morte della città. E nemmeno i 30.000 fanti e i 3.000 cavalieri accampati a pochi chilometri da Palazzo Pubblico fecero paura. Non c’erano soldi per pagare i cavalieri tedeschi che re Manfredi aveva inviato: si fece avanti Salimbene Salimbeni con una carretta dove aveva caricato ben 18.000 fiorini d’oro, e il destino della sua casata se la guerra fosse andata per il verso sbagliato.

La notte del 2 settembre fu passata in preparazione. Venne nominato un “dittatore temporaneo” nella persona di Messer Buonaguida Lucari che guidò tutto il popolo senese in Duomo, mettendo le sorti della città intera nelle mani della Vergine del Voto, in cui onore ancora oggi si corre il Palio del 16 agosto. Poi, usciti da Porta Pispini, i ghibellini senesi si avviarono verso l’accampamento nemico posto tra i fiumi Malena e Biena e l’Arbia. Vestiti con le casacche dei Terzi[1], i senesi, seguito dal loro Carroccio dove spiccava la Balzana, la bandiera bianco-nera della Repubblica, si avviarono verso il loro destino.Si erano divisi in quattro colonne: una comandata da conte Giordano d’ Anglano era forte di 600 cavalieri tedeschi e 600 fanti, e difendeva l’insegna di re Manfredi custodita da un Connestabile, il cavaliere Orlando d’Alemagna; una era guidata dal Capitano Generale delle Milizie Senesi Aldobrandino Aldobrandeschi ed era forte di 15.000 fanti da mischia senesi e 600 cavalieri. La terza colonna doveva custodire il Carroccio con la Balzana grazie a 200 cavalieri senesi comandati da Niccolò da Bigozzi del Terzo di  Camollia. Ma è la quarta colonna la più importante. Comandata dal conte d’Arras e forte di 200 cavalieri tedeschi e 200 fanti, doveva aggirare il fianco nemico e, postasi all’imboscata, attaccare al grido “San Giorgio” senza dare quartiere all’avversario. Prima che iniziasse lo scontro, giunse al gran galoppo un cavaliere catafratto.

La sua lucente armatura racchiudeva il corpo di Arigho d’Astinbergh il quale, posto ginocchio a terra, chiese allo stato maggiore ghibellino di avere il privilegio di essere il primo feritore, come contemplava una antica legge del Sacro Romano Impero. Fu seguito in questa richiesta dal nipote Gualtieri e, avuto ambedue il nulla osta, si precipitarono all’assalto seguiti da altri cavalieri. Sul fronte opposto, nonostante la superiorità numerica, i fiorentini stavano lasciando il campo alla vista dei senesi. Ma questi ultimi non erano di questo avviso. Intorno alle 7,30 i ghibellini passarono l’Arbia e, verso le 10 del mattino, caricando con lancia in resta, Gualtieri aveva già infilzato il capitano dei lucchesi Niccolò Garzoni e aveva, con il suo spadone, trapassato altri di quella città. La lotta divenne furibonda: si tagliava, si scannava, si infilzava da una parte e dall’altra. Il conte Giordano uccise Donatello da Tarlato, aretino e l’ala destra guelfa iniziò a indietreggiare. Fu in quel momento che attaccò Aldobrandino Aldobrandeschi con i suoi fanti da mischia e cavalieri. Sinibaldo Rubbini da Orvieto fu la sua prima vittima, poi, presa la spada a due mani, Aldobrandino si mise a tirar fendenti a destra e manca ammazzando di brutto quei malcapitati che gli venivano a tiro. Ma i guelfi contrattaccarono. Tremila cavalieri assalirono la metà dei senesi e i senesi avevano già perduto Giovanni Ugurgieri. Aldobrandino Rosso di Pitigliano, con le sue schiere guelfe, stava facendo il vuoto attorno a se.

Ma all’improvviso, lasciato il Carroccio incustodito, arrivò di carriere il Bigozzi che, facendosi largo a colpi di spada, uccise moltissimi pitiglianesi e riuscì, nonostante che il suo cavallo fosse ucciso, a catturare Rosso di Pitigliano. La fine stava avvicinandosi. Guido Novello, uno dei fuoriusciti fiorentini assieme a Farinata degli Uberti, riuscì a far defezionare dal campo nemico un gruppo di suoi parenti. Visto questo, il cavaliere Bocca degli Abati, con un sol colpo di spada recise il braccio del porta  insegna della cavalleria fiorentina Jacopo de’ Pazzi, che cadde a terra. Poi, Bocca e altri cavalieri si diressero al galoppo verso il Carroccio di Firenze, ma qui giunti furono massacrati dai cavalieri fiorentini e dai fanti che si erano ripresi dalla sorpresa e, lasciata questa vita, entrarono nella leggenda e nella immortalità.[2] Erano circa le sei di sera quando echeggiò per il campo di battaglia il grido “San Giorgio”. Il conte d’Arras e i suoi, che fino a quel momento si erano tenuti nascosti, balzarono fuori e, al grido “ a la morte” caricarono gli avversari. Arras trafisse la gola del comandante generale fiorentino Iacopino Rangoni da Modena e fu la fine. I guelfi si sbandarono, vedendo cadere il loro comandante, e cominciarono a fuggire da tutte le parti lasciando ai ghibellini solo l’onere di ucciderli causando Lo strazio e l’grande scempio che fece l’Arbia colorata in rosso,[3] come fece Geppone di Val Biena con la sua scure. Usilia, vivandiera senese, salvò da morte certa 36 fanti fiorentini portandoli in città legati. Dalla torre Marescotti, a Siena, Cerreto Ceccolini e il suo tamburo segnalarono la vittoria alla città. Siena era salva, ma la Storia , il Destino o Dio stavano per cambiare, per imperscrutabili ragioni, avrebbero cambiato il gioco.

A Firenze, dal 17 settembre 1260, si era insediato un governo ghibellino e, verso la fine del mese, intorno al 28-29 settembre, a Empoli, castello abbastanza prossimo alla città, si era svoltala Dieta Ghibellinaproprio nel Palazzo Ghibellino, per decidere la sorte della città nemica di Pisa, Siena e Arezzo. Davanti ai delegati di re Manfredi, soprattutto senesi e pisani chiesero a gran voce che si votasse l’annientamento di Firenze. Le mura abbattute, così le case e le botteghe, come Firenze aveva fatto nel 1202 con Semifonte. I motivi, oltre che politici, erano economici. Ma nel contesto dell’assemblea si alzò il capo dei ghibellini fiorentini che, da fuoriuscito, aveva combattuto a Montaperti, Manente Iacopo degli Uberti detto Farinata. Con una eloquenza dettata solo dal grande amore per la sua città, amore-odio che sarà sempre presente nei confronti di fuoriusciti fiorentini verso il loro luogo d’origine, egli riuscì a bloccare le votazioni e a salvare Fiorenza. Fu un errore? Forse no. Forse Farinata aveva visto lontano e aveva capito che solo da quella città tanto odiata dalle altre, un giorno, sarebbe stato scritto il destino dell’intera Toscana. Solo da quella città attraversata dal fiume, un giorno, sarebbe nata una dinastia che avrebbe dato all’Italia e al mondo personaggi come Giovanni Dalle Bande Nere, Lorenzo il Magnifico, Cardinali, Papi. A Empoli è rimasto una specie di “pensiero di una occasione perduta”. Se Firenze fosse stata distrutta, Empoli avrebbe assunto più importanza. Probabilmente questo è solo mero campanilismo, in quanto città come Arezzo, Pisa e la stessa Siena non avrebbero mai accettato che un semplice castello, per di più che bloccava una via importante come la Francigena, avesse ad assurgere a importanza politico-militare più del dovuto.

La battaglia di Montaperti, che si combatté a Siena ma si concluse a Empoli, fu vera gloria? No. Nel 1269, solo dopo nove anni, a Colle Val d’Elsa i fiorentini batterono i senesi, facendo di Siena una città guelfa; nel1291 a Campaldino il povero Dante se la faceva addosso mentre i suoi concittadini battevano gli Aretini di brutto. Infine, nel 1270, Firenze costringeva alla resa Pisa e distruggeva Poggibonizio. Che volete di più?

 


[1] Terzo di San Martino, Terzo di Città, Terzo di Porta Camollia.

[2] Piangendo mi sgridò: Perché mi peste? Se tu non vieni a crescer la vendetta di Montaperti, perché mi moleste? Inferno, Canto XXXII, Antenora. Dante incontra Bocca degli Abati.

[3] Inferno, Canto X. Dante incontra Farinata degli Uberti.

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