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Arno, il nostro amato fiume – di Leandro Piantini

20120912_092552Parlare dell’Arno? A pensarci bene non gli pare di aver mai avuto un grande interesse per l’Arno. L’aveva sempre guardato distrattamente – così si ricordava – di rado aveva camminato sulle sue rive, forse vi si era tuffato qualche volta da ragazzo ma nulla di più. Ma poiché doveva farlo cominciò a pensarci e stranamente si accorse che, se si concentrava su quel pensiero, ne trovava di cose da dire. Bastava guardarlo, il fiume, come si presentava a Firenze, ma doveva essere lo stesso anche altrove. L’impressione che dava era che non vi succedesse più niente, ma certo l’Arno aveva una lunga storia ed era nobilitato dal fatto che attraversava città come Firenze e Pisa, che di storia, di storia gloriosa, ne avevano avuta eccome.

Ora non capitava mai di vedere in quelle acque grigiastre nemmeno una barca, un barchino. E veniva da pensare come doveva essere stato nell’ottocento e anche dopo, fino a un cinquant’anni fa quando c’erano ancora le barche e i bagnanti stesi a prendere il sole.  Certo c’era stata l’alluvione del ‘66 ma quella era meglio non nominarla nemmeno. In quel tremendo quattro novembre l’Arno si era forse vendicato col suo terribile attacco di follia dell’abbandono e dell’incuria in cui era stato lasciato. E per forza si era parlato della sua mascalzonata in tutto il mondo. 

Chissà se c’erano ancora i pesci nelle sue acque, forse c’erano ma non interessavano  a nessuno. Egli invece ricordava quando c’erano tante varietà di pesci nel fiume e nel suo paese erano in vendita tutti i giorni sul banco di un ambulante. “ Donne, pesci d’Arno vivi…”,ricorda ancora la voce del pesciaiolo, il padre di un suo compagno di scuola. Ora nell’Arno dovevano esserci soltanto talpe, talponi, animali disgustosi che si arrabattavano a vivere di soppiatto tra le coltri di alghe e di altre erbacce parassitarie che crescevano su quelle rive in perenne abbandono.

Eh no, se un ignorante di cose fluviali come lui si soffermava a pensare che aspetto aveva adesso, il bell’Arno d’argento delle canzoni  d’una volta, capiva quanto la natura, il paesaggio, e tutto ciò che si muoveva intorno al fiume erano irrimediabilmente cambiati. Ora si aveva l’impressione che dentro quel fiume non succedesse nulla. Ma nei tempi passati, nei secoli passati? Bastava pensare alle imbarcazioni che percorrevano l‘Arno, e in tutte e due le direzioni, alle barche da trasporto che andavano da Firenze alla foce, e da Arezzo verso Firenze, e poi c’erano le pescaie che vi sorgevano intorno. Sì, doveva esserci allora un traffico infernale di barche d’ogni tipo che andavano nel senso della corrente ma anche in senso contrario, da valle a monte, cosa che gli era sempre sembrata inverosimile.

Per lunghi secoli le rive del fiume erano state piene di vita e di presenze umane. Doveva essere un via vai continuo di carri e carretti che arrivavano sul fiume scaricando merce da stivare nelle barche, e c’erano migliaia di persone, commercianti, operai, marinai e i piloti delle barche, i navicellai, che vivevano di quei traffici. Quante saranno state le persone che vivevano sul fiume, per esempio in un anno scelto a caso, mettiamo nel  1850: i navicellai, gli operai, gli scaricatori, i riparatori delle barche? Quando il treno non esisteva ancora, o nei primi tempi della sua esistenza, sulla tratta Firenze-Pisa, il trasporto delle merci, e anche quello dei passeggeri, avveniva quasi tutto via fiume. Che vita,che animazione…

Ora invece guardava l’Arno tranquillo e silenzioso scorrere malinconicamente. Quelle acque erano quasi sempre acque basse. Sembravano immobili e anche quando, a causa delle piene, tumultuavano, davano sempre l’impressione di essere acque morte,  come se non avessero più né meta né scopo.

Un tempo i ragazzi nella buona stagione facevano il bagno in Arno, lì imparavano a nuotare, e se imparavano nel fiume erano vaccinati per tutta la vita perché nuotare in un fiume, con le sue correnti traditrici, e gli agguati imprevedibili dei mulinelli che si formano vicino ai piloni dei ponti, richiede destrezza e coraggio.

Egli si ricordava ancora  le tragedie che spesso avvenivano d’estate. Quando si cominciavano a sentire le urla venire dalla parte del fiume, si poteva essere sicuri che qualcuno, e quasi sempre erano ragazzi, stava annegando travolto da quelle acque infide. Così erano morti due suoi amici, di uno si ricorda il nome, Sante detto Santino, un ragazzo grasso e dalla vista difettosa, un rompiballe famoso per essere uno scavezzacollo, che affogò in quelle acque un lontano pomeriggio d’agosto.  E ricorda anche il figlio maschio di una numerosa famiglia dell’ultimo piano in quella casa di piazza dei Leoni dove anche egli abitava. Una famiglia in cui l’unica a lavorare era la madre, una magliaia vedova del marito, e che dovevano tutte le volte inerpicarsi all’ultimo piano, un quinto o forse un sesto piano di una casa senza ascensore. La morte del maschio, che se lo ricorda come un ragazzo quieto e volenteroso, fu una tragedia per quelle povere persone.

In Arno si moriva ma ci si divertiva anche, a nuotare, a prendere il fresco la sera, ad andarci con qualche bambina e poi con la ragazza, e c’erano delle festicciole sul greto del fiume, delle orchestrine, e si ballava, si bevevano chinotti e cocacole…
Ma oggi? Oggi tutto questo non esiste più. Si dirà che è la legge della vita, una cosa finisce e mille altre nascono e prendono il suo posto ma questo ragionamento non  riesce a consolarlo. L’Arno era una cosa viva, il centro di tante cose, di traffici, di avventure, di incontri.

Nell’ottocento sull’Arno ci furono perfino delle battaglie sanguinose. I navicellai divenuti all’improvviso disoccupati o a rischio di diventarlo quando la strada ferrata cominciò a funzionare, ingaggiarono una vera e propria guerriglia per distruggere i treni e le stazioni che consideravano la causa della loro rovina. Il treno era più veloce delle barche, improvvisamente migliaia di persone persero il posto di lavoro perché viaggiare sul fiume non era più economicamente vantaggioso. Si racconta che furono date a fuoco le stazioni, è rimasto famoso il caso di quella di Montelupo Fiorentino, posta proprio davanti ai paesi di Limite sull’Arno e di Capraia. E rammentare questi paesi gli fa venire in mente un’altra importantissima attività nata con la navigazione fluviale, la costruzione delle barche. A Limite fin da tempi lontani si cominciarono a costruire imbarcazioni di ogni tipo, anche imbarcazioni militari, e perfino yacht di gran lusso. Egli ricorda di aver visitato nel 1985 un cantiere navale dove stavano fabbricando un panfilo bellissimo tutto di legno pregato, commissionato dal campione di Formula uno Gilles Villeneuve.

Poi egli comincia a pensare che non serve a nulla rimpiangere il passato. Il fiume deve continuare a vivere. Certo egli non è un esperto di fiumi e non sa che cosa si potrebbe fare per riportalo

a nuova vita, ma esso scorre in una delle terre più belle d’Italia, in mezzo ad una popolazione che non manca di spirito di iniziativa, di inventiva, di voglia di fare. Anche egli ha visto delle piste ciclabili che sono sorte qua e là lungo gli argini del fiume, sa di progetti  che vogliono ridare vita all’Arno, per farlo uscire dall’abbandono con la creazione di oasi naturalistiche, di vita conviviale,  attrezzando aree per spettacoli, parchi giochi per bambini. Insomma si possono immaginare tanti miglioramenti da fare per uscire dallo squallore di adesso.

Gli pare che si potrebbero creare intorno alle sue rive degli orti, dei giardini, valorizzare le splendide anse naturali che l’Arno forma, come quella bellissima delle Cascine, o quella sorta di macchia mediterranea che si stende intorno al Masso della Golfolina. Moltiplicare quei canneti, quei boschetti di pioppi, quelle abetaie che gli pare di ricordare erano così numerosi un tempo, verso Empoli, nella zona delle grotte di Pagnana.

Sì, il fiume sarebbe sicuramente abbellito da una cornice naturale che sviluppasse la vegetazione, in modo da far nascere boschetti, abetaie, canneti, pioppeti . Ha dei vaghi ricordi del passato, ma gli baluginano nella mente immagini di boschi lussureggianti, di agili pioppi biancheggianti al sole primaverile. Così il fiume più importante del centro Italia potrebbe diventare una riserva naturalistica in cui le piante e gli alberi diventerebbero una cornice che rallegra ogni momento lo scorrimento delle acque. E così il fiume potrebbe trarre dalla bellezza che lo circonda nuove energie per adempiere al compito che la creazione gli ha assegnato, di spingere ogni giorno la sua corrente dal Falterona a Bocca d’Arno, senza stancarsi mai di far girare la stessa ruota, di cantare la stessa canzone.

                                                    Leandro piantini

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