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Giuliano Lastraioli: intervento al Convegno sulla storia locale a Pistoia

 Pistola, 26 ottobre 2012

Convegno sulla storia locale nell’epoca della globalizzazione

Intervento di GIULIANO LASTRAIOLI, direttore del “Bullettino Storico Empolese”.

Ma l’avete letta la storia di Civitavecchia del Calisse? Oppure i brevi saggi di Benedetto Croce sui paeselli d’origine dei suoi genitori?
O anche gli studi maremmani di Gioacchino Volpe? Quella non è storia locale, ma superstoria. Altro che globalizzazione!
Quelli sono capolavori storiografici preglobalizzati.
E quindi eterni. Hanno fatto scuola.
A parte l’iperbole (un po’ di retorica a noi provinciali non guasta), ritengo che in punto di storia locale si possa andare poco oltre, con buona pace per il professor Bendiscioli, che già nel 1967, al congresso nazionale, di scienze storiche celebrato a Perugia, preconizzava un revival della cosiddetta “storia locale” alla stregua di nuove metodologie rispettose dei sacri canoni del rigore critico, di una filologia accurata e di una disamina delle materie trattate più generalizzata della ristretta Landeskunde che ha spesso caratterizzato la produzione localistica,
Nessuno di noi, modesti eruditi di paese, dai brevi orizzonti e dalle fonti informative limitate, va esente da un culto geloso ed eccessivo della dantesca “carità del natìo loco”, che ci spinge inesorabilmente a radunare “le fronde sparte” (Inf. XIV, 1-2).
Vivo e opero in una piccola città da sempre priva di importanti istituzioni politiche, amministrative, giudiziarie e religiose, dove purtroppo pullulano e proliferano i memorialisti, i raccoglitori di aneddoti, i laudatores dei luoghi comuni tradizionali, con assoluto privilegio per la intoccabile sacertà della volgata antifascista e resistenziale.
Non esistono, a Empoli, storici professionali a tempo pieno, ma dilaga, invece, un’infinità di cultori della spigolatura curiosa avulsa dal contesto.
Mancano pure i benemeriti proposti e canonici della Collegiata che almeno producevano importanti materiali di consultazione, nel cui “hortus conclusus” si è poi dovuto inzuppare il biscotto, di buona o di cattiva voglia. Almeno, quei venerandi autori sapevano dove mettere le mani, conoscevano il latino alla perfezione (soprattutto quello tardo e medievale) ed erano assai pratici di paleografia e di epigrafia.

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