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Claudio Biscarini: 70 anni dopo l’abdicazione di Vittorio Emanuele III

Domenica di Pentecoste 9 maggio 1946: sull’incrociatore Duca degli Abruzzi, l’ex sovrano d’Italia Vittorio Emanuele III con la moglie Elena se ne andava in esilio ad Alessandria d’Egitto dopo aver abdicato in favore del figlio Umberto, il re di maggio.

Vittorio_Emanuele_III_(c._1915–1920)


Il lungo cammino del terzo re d’Italia verso l’abbandono del trono era iniziato il 12 aprile 1944. Quel giorno, egli aveva trasmesso i poteri al figlio come Luogotenente Generale del Regno, poteri che sarebbero stati effettivi solo dopo l’avvenuta liberazione di Roma.

Vittorio Emanuele Ferdinando Maria Gennaro di Savoia, il sovrano più controverso d’Italia, era nato a Napoli l’11 novembre 1869 da Umberto I e da Margherita, due cugini primi. Da tempo i Savoia si sposavano tra consanguinei e il piccolo Vittorio Emanuele scontò questa usanza: piccolo, con un busto troppo grande per le sue gambe, intelligente e introverso, venne istruito da un precettore militare che lo obbligò alla dura vita delle sue future funzioni. Colto quel tanto che bastava, parlava quattro lingue, non amava la vita mondana e quando divenne re, dopo la morte del padre assassinato il 29 luglio 1900 a Monza dall’anarchico Bresci, per prima cosa proibì i balli di corte.

Gli scelsero una moglie, la montenegrina Elena, per due motivi: per rafforzare l’influenza italiana nei Balcani e per rinforzare con sangue nuovo la dinastia, Elena era bella, alta e, soprattutto, semplice. Fu un matrimonio, al di là delle convenienze politiche, azzeccato. I due sposi si “trovavano”, come si dice, per carattere ed abitudini ed ebbero sempre un sincero affetto l’uno per l’altra.

I primi anni di regno videro Vittorio Emanuele III adottare una politica diversa da quella del padre, il re buono che aveva fatto sparare sui dimostranti dal generale Bava Beccaris[1].  Poi, la guerra italo-turca del 1911 iniziò la serie dei conflitti che, durante i suoi 46 anni di regno videro gli italiani sempre in prima fila. Durante la Grande guerra, praticamente fu sempre al fronte stabilendo il suo quartier generale a Torreano di Martignacco da dove partiva per frequenti visite alle truppe. Fu qui che si meritò il soprannome di re soldato che avrebbe perduto nel 1943.

Finita la guerra, l’Italia non ebbe quei guadagni territoriali che si aspettava, e che gli erano stati promessi, e per di più cadde in una inflazione che devastò la nostra economia. I reduci che tornavano dal fronte spesso trovarono una situazione terribile e iniziarono quelle giornate di rivolte che  avrebbero avuto come avversario  un movimento nato nel 1919 alla cui testa c’era un ex socialista di nome Benito Mussolini. La violenza delle squadre fasciste mise a soqquadro tutta la Penisola fino a che, il 28 ottobre 1922[2], a seguito della marcia su Roma, delle squadre fasciste che proprio Vittorio Emanuele III non aveva voluto contrastare, Mussolini venne chiamato a formare un nuovo governo. Da quel momento, la vita dei due personaggi sarebbe andata di pari passo. Il re non amava il duce ed era ricambiato, ma aveva creduto di potersene servire mentre, poi, si era ritrovato a fare da secondo incomodo. Nemmeno l’assassinio di Giacomo Matteotti nel 1924 fece decidere al Savoia di defenestrare il suo primo ministro. Furono, poi, gli anni dell’Impero, della corona d’Albania, dell’alleanza con la Germania di Hitler, che Vittorio Emanuele III detestava, e del secondo conflitto mondiale. Il re seguì il duce sulla china del disastro firmando le dichiarazioni di guerra che gli venivano portate, alla Francia, all’Inghilterra, agli Stati Uniti d’America. Fino al 25 luglio 1943 quando, con l’Italia invasa, le città distrutte dai bombardamenti, la gente stanca della guerra ormai persa e dell’alleanza con i tedeschi, fidando nel voto del Gran Consiglio del Fascismo, il sovrano si decise a togliere di mezzo Mussolini, e farlo arrestare, e con esso il regime. Lo fece, però, a modo suo, con poco stile e con l’incarico di formare un nuovo governo dato a Badoglio che era stato tra coloro che più avevano beneficiato del fascismo nel corso degli anni.

Fu ugualmente un successo. La mattina di lunedì 26 luglio gli italiani erano tutti in strada a gridare viva il re, viva l’esercito, viva Badoglio. Pareva che ci fosse di nuovo il re soldato e invece era l’inizio della tragedia. Quarantacinque giorni di sotterfugi, di ricerca di un armistizio con gli Alleati in una maniera abborracciata e dilettantesca, di soldati che sparavano sulla folla che dimostrava per avere i prigionieri politici liberi, di abolizione del partito nazionale fascista ma non delle leggi razziali del 1938, fino a mercoledì 8 settembre 1943 quando tutti i nodi vennero al pettine, l’armistizio venne reso noto e i nostri militari sia in Patria che all’estero si trovarono abbandonati a sé stessi, mentre gli uomini di Hitler già dal  luglio avevano ricevuto ordini precisi. E fu il tutti a casa, una nazione allo sbando come ha scritto Elena Aga Rossi. E fu il Fall Achse, con i nostri militari catturati a migliaia[3], uccisi, fucilati o scappati in montagna. Un esercito valoroso si dissolse in quattro giorni mentre il suo comandante, il re Vittorio Emanuele III, con i generali, i ministri militari, i Badoglio,i  Roatta, gli Ambrosio, dopo essersi lasciata alla spalle una Roma attonita, la mattina del 9 settembre, mentre ancora si combatteva per la capitale, erano sfilati sulla via Tiburtina-Valeria[4] fino ad arrivare ad Ortona a mare e alla corvetta Baionetta. Lo sbarco a Brindisi fu il coronamento di questa serie di tragici errori. Poi furono i giorni dell’umiliazione, del cosiddetto Regno del sud, degli Alleati che non volevano nostri soldati al loro fianco, che ci presentarono i termini di una resa senza condizioni con il cosiddetto armistizio lungo, della dichiarazione di guerra alla Germania il 13 ottobre 1934, la quinta o la sesta firmata dal re controvoglia, dimentico che i suoi soldati rimasti in balia dei tedeschi fossero trattati da franchi tiratori. Ci volle Eisenhower per rammentarlo a Badoglio a Malta.

Ormai Vittorio Emanuele III veniva visto dai politici, anche dai liberali sostenitori della Monarchia, come un peso che poteva portare a fondo la dinastia che aveva fatto il Risorgimento. Il vecchio Savoia, però, resisteva e fu duro fargli accettare la Luogotenenza come fu durissimo farlo abdicare a favore del figlio Umberto. Poi, il 9 maggio di 70 anni or sono, la fine e la partenza per l’Egitto dove sarebbe morto il 28 dicembre 1947 sotto il nome di conte di Pollenzo. Usciva così di scena un protagonista della storia nazionale che, all’inizio, era sembrato quasi un innovatore e che alla fine trascinò, assieme a Mussolini, l’Italia nella più grande tragedia che abbia mai subito.

Claudio Biscarini

 


Note e Riferimenti:

[1] Durante i moti di Milano del 1898, il generale Fiorenzo Bava Beccaris aveva fatto aprire il fuoco sui dimostranti causando un centinaio di morti e circa 300 feriti.

[2] La marcia su Roma, che i fascisti avevano organizzato già da tempo, avrebbe potuto essere agevolmente fermata dal Regio Esercito se il re lo avesse ordinato cosa che non fece.

[3] Il comando italiano aveva diramato un ordine, detto Memoria OP 44 dove OP stava per Ordine Pubblico, da consegnare ai comandi d’armata a mezzo di ufficiali superiori. Della Memoria, di cui non esiste un originale ma le parti essenziali sono state ricostruite, si diceva che solo in caso di attacco da parte tedesca si doveva reagire. In più, la Memoria doveva essere consegnata al comandante d’armata che la doveva leggere e firmare l’ultimo foglio a modo di ricevuta e, quindi, distruggere tutto il resto. Alcuni la ricevettero pochissimi giorni prima dell’8 settembre.

[4] L’errore di Vittorio Emanuele III e di Badoglio non fu di andarsene da Roma. Salvare il Governo era stata la priorità di molti altri in Olanda, in Lussemburgo, in Norvegia, perché ci fosse una continuità legale. Fu il modo in cui gli italiani lo fecero, senza dignità, abbandonando tutto e tutti che fece la differenza.

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