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A Spicchio per visitare l’Oratorio della Madonna dell’Erta – di Paolo Santini

Madonna dell'Erta2Un documento conservato nell’Archivio Parrocchiale della chiesa di Santa Maria a Spicchio ci racconta che “esisteva in detto luogo fin dai tempi più remoti l’Immagine di detta Vergine delle Grazie, detta comunemente dell’Erta in un tabernacolo, alla quale era prestata dai popoli circonvicini una grande venerazione”. Nella seconda metà del Settecento quindi esisteva un tabernacolo con la statua della Madonna delle Grazie con il Bambino Gesù, nel luogo detto dell’Erta in aperta campagna in prossimità del bivio tra le strade che conducono a Collegonzi (in salita, erta) e a Piccaratico da un lato e a Spicchio naturalmente dall’altro  Il tabernacolo era situato, come in molti casi analoghi, in un luogo da secoli ritenuto pericoloso a causa della presenza di una strada –allora – di grande transito, proveniente da Collegonzi, che in quel punto presentava una vertiginosa e sconnessa discesa. L’”invenzione” di quest’immagine popolare, tipicamente legata ad immagini ritenute miracolose, rientra nella tradizione comune a molti ritrovamenti quali quello dell’Impruneta ed anche quello della vicina Petroio. Anche qui troviamo il contadino che ara, i buoi che si fermano e s’inginocchiano, il ritrovamento prodigioso sottoterra vicino al fiume Arno dell’immagine della Madonna. La popolazione spicchiese decise di costruire nei pressi del luogo del ritrovamento appunto un tabernacolo. La devozione popolare testimoniata dalla grandiosa festa quinquennale, dalle frequentazioni continue di masse di fedeli, dall’attribuzione di alcuni miracoli alla Madonna dell’Erta e dai numerosissimi ex voto, promosse poi la costruzione dell’oratorio al posto dell’ormai monumentale tabernacolo. Il piccolo oratorio, edificio ad aula unica con tetto a capanna e cupoletta in corrispondenza del presbiterio, fu costruito dai fratelli Bargellini della Tinaia, Giuseppe Leopoldo e Francesco, qualche anno prima del 1820, anno in cui fu ceduto dagli stessi al parroco di Spicchio. E’ datato 9 agosto 1820, infatti, l’atto di donazione da parte dei fratelli Bargellini dell’oratorio “eretto con elemosine” al parroco di Spicchio Monsignor Ranieri Bardini il quale lo benedisse “per delegazione di Monsignore Pier Francesco Morali Arcivescovo di Firenze […] nel dì 19 Agosto 1820”. Come il Tabernacolo non è nominato nelle Visite pastorali del Settecento e dei primi dell’Ottocento, così nemmeno l’Oratorio è citato nella Visita del vescovo del 1829, ma soltanto in quella del 1879, in cui è così descritto: “L’Oratorio è grandicello posto in luogo isolato, è molto grazioso, ha palco a volterrana, un altare sotto una cupoletta; sul presbiterio due colonne che reggono l’arco; ha una porta con due finestre basse  ai lati ed è illuminata da  due lunette in ciascuno dei suoi lati”. All’interno  allora come oggi, è venerata la scultura lapidea recante l’”Immagine della Vergine col Bambino posta su di un altare con pietra sacra”.

Quando la Filarmonica Giuseppe Verdi di Empoli riuniva folle oceaniche festanti. Il concorso di Viareggio. – di Paolo Santini

La banda nel 1910Solo quattro anni erano trascorsi dalla nascita della “nuova filarmonica” empolese, – nuova per distinguerla da quella vecchia, ancora viva e vegeta all’epoca – poi intitolata a  “Giuseppe Verdi”, che la formazione composta da tanti giovani entusiasti e guidata da Lionello Cecchi, figlio dell’indimenticato maestro Giuseppe Cecchi, sentì subito il bisogno di mettersi alla prova. E dopo i celebrati successi cittadini, i dirigenti decisero che era arrivato il momento di varcare i confini provinciali per esibirsi in una prestigiosa kermesse per bande, nientemeno che a Viareggio. Era il 1912, agli albori degli anni ruggenti della perla della Versilia. Per l’uscita viareggina i musicanti della Nuova Filarmonica si prepararono a porte chiuse, le numerose prove si svolsero in gran segreto e anche il programma rimase fino alla fine sconosciuto ai più. Si trattava della prima uscita dai confini della Toscana centrale, e la Filarmonica questa volta si sarebbe trovata a competere con formazioni di città molto più grandi, con organici più completi e meglio organizzati. Fu così che la Nuova Filarmonica Empolese, diretta da Lionello e Antonio Cecchi, partì domenica 18 agosto alla volta di Viareggio. La Filarmonica a pieno organico, con l’inserimento dei due figli del Cecchi e di altri bravi musicisti dagli illustri antenati, sarà diretta da un maestro non empolese molto noto, Giovanni Falorni, che guiderà il sodalizio nell’esecuzione dei due pezzi prescelti, la celebre sinfonia Peter Schmoll di Weber e la marcia Italia di Giuseppe Cecchi. La trepidante attesa degli empolesi esplode in gioia incontenibile all’arrivo della notizia, nel pomeriggio del lunedì 19, della strepitosa affermazione della Filarmonica. Una folla festante era ad attendere i musicanti al loro ritorno presso la stazione di Empoli nella serata di lunedì. «La sera del Lunedì 19, alle ore 23, – leggiamo in presa diretta dalle pagine del Piccolo Corriere del Valdarno e della Valdelsa – una folla immensa di popolo si riversò alla stazione ferroviaria per ricevere la Banda di ritorno da Viareggio. Notammo una selva di fanali variopinti e di cartelli coi motti: w la Nuova Filarmonica, w il Maestro Falorni, w i Fratelli Cecchi. All’arrivo dei musicanti scoppiò un nutrito applauso e fra gli applausi fu accompagnata la Banda nel giro d’Empoli e fino al Municipio ed alla residenza sociale, mentre la premiata Filarmonica suonava liete marce, fra cui ‘Italia’ del compianto Maestro Giuseppe Cecchi, che tanto entusiasmo suscitò anche al concorso. Sappiamo che a Viareggio dopo la consegna dei premi, si volle che la nostra Musica percorresse la città al suono di allegre marce, fino alla stazione, ove fu fatta segno a vivi applausi e fu ossequiata dal comitato promotore del Concorso e dei festeggiamenti. è giusto rilevare il progresso insperato di questa Filarmonica, che ha saputo raggiungere uno dei posti fra otto bande toscane e rialzare così il buon nome artistico di Empoli.

La carriera fulminea di Alessandro Martelli, ministro di Mussolini – P. Santini

Alessandro Martelli foto inedita 3Passeggiando per Vinci, nella parte bassa del paese, l’osservatore attento percepisce immediatamente alcune presenze notevoli, in qualche modo diverse dalle solite case, presenze inusuali e rivelatrici. L’attuale teatro della Misericordia, la splendida villa Martelli, e l’edificio che ospita oggi l’istituto di ottica, già scuola elementare. Si tratta di tre edifici progettati da un architetto illustre, il fiorentino Adolfo Coppedè, tutti realizzati negli anni Venti del Novecento, periodo in cui ai vertici del governo nazionale c’era anche un vinciano doc, il ministro dell’economia Alessandro Martelli. Fu proprio Martelli a chiamare nella terra natale di Leonardo l’architetto fiorentino innamorato del Rinascimento, e fu proprio Martelli a volere che l’artista lasciasse un’impronta forte e visibile per le vie del borgo basso, quasi a creare una sorta di secondo polo d’attrazione che facesse da contraltare moderno, architettonicamente degno di nota, all’antico borgo medievale, dominato dalla massiccia mole del castello dei Conti Guidi. Vediamo da vicino chi era questo straordinario personaggio.

Alessandro Martelli e gli errori della Treccani. Da Federico Martelli e da Matilde Negri nasce a Caltanissetta – dove il padre, vinciano doc, è in missione temporanea in qualità di ingegnere ferroviario – e non a Vinci, il futuro ministro di Mussolini, Alessandro Martelli.

Ma ecco il primo inghippo: la monumentale enciclopedia Treccani riporta, erroneamente, «Martelli Alessandro. Geologo nato a Caltanissetta da famiglia toscana il 25 novembre 1878», e la stessa data di nascita è riportata dall’altrettanto prestigioso Dizionario Biografico degli Italiani. Si tratta di un grossolano e ripetuto errore, perché siamo riusciti a reperire nell’archivio storico comunale del

Paolo Santini: Un ponte d’autore per Empoli. Peccato che non lo sapesse. O lo avesse dimenticato

Fino a poco tempo fa e per quasi sessant’anni Empoli ha avuto un ponte d’autore. E che autore! Ma viene da chiedersi se lo sapesse, Empoli, visto che nessuno in loco, – soltanto uno, il sindaco di Vinci Dario Parrini, in un’occasione pubblica accennò al grande autore – nemmeno negli ultimi mesi, ha celebrato questo grande ingegnere italiano, famoso per tante realizzazioni, ponti soprattutto, in giro per il Bel Paese  e per il mondo intero. Il ponte d’autore naturalmente era quello appena demolito, anzi “smontato”, fra Spicchio ed Empoli, e l’autore era Riccardo Morandi. Tanti ingegneri e tecnici a questo punto sobbalzeranno sulla sedia nell’udire il nome di uno dei mostri sacri delle costruzioni sopraelevate. Si, proprio lui, il genio del cemento armato precompresso, con sette brevetti sulla precompressione che portano il suo nome, citato in tutti i testi dell’ingegneria contemporanea. Morandi nel 1949 aveva progettato un ponte a travata sull’Elsa, in località Canneto – era l’estate del 1950 quando il ponte, che misurava 40 metri di luce, con conci di 1 metro e 16 cavi, costruito dall’impresa Fratelli Giovannetti, fu inaugurato – e poi, nel 1952 il ponte principale della cittadina empolese, un ponte a tre travate semplicemente appoggiate ciascuna di 32 metri di luce. L’inaugurazione della struttura avvenne nel 1954. Il ponte, ricordava Morandi, è insieme la conquista dello spazio e un fatto di pura forma, “e in questa opera si realizza la sintesi di architettura e ingegneria”; egli sottolineava come questi interventi debbano interagire con il paesaggio e con i suoi abitanti, “in un rapporto strettissimo tra necessità, dovuta alle esigenze del progresso, e una forma di tutela del patrimonio naturale – e paesaggistico, ndr – che passa attraverso la contaminazione con l’oggetto architettonico studiato per il contesto particolare”. In effetti anche il ponte empolese era ben inserito nel contesto dell’epoca; minimalista, razionale, sottile ed elegante, in confronto al pachiderma appena realizzato, un colosso poderoso nella struttura e negli ingombri, certamente più funzionale, speriamo più duraturo. Certamente meno elegante del ponte di Morandi.

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