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Apple vs Federal Bureau of Investigation

Si potrebbe definire così l’ultima querelle tra l’agenzia investigativa federale statunitense e il colosso dell’informatica. Motivo del contendere: la crittografia nei messaggi di alcune applicazioni  in rete.


 

di Claudio Biscarini

La vicenda dell’FBI, come si ricorderà, era nata dalla richiesta ad Apple di poter decrittare i messaggi che gli attentatori di S.Bernardino avevano inviato con l’ IPhone. In quel caso, due attentatori, marito e moglie, Syed Rizwan  Farook e Tashfeen Malik, estremisti islamici, ammazzarono a colpi di fucile d’assalto 14 persone e ne ferirono 23 in un centro sociale per disabili.

La crittografia è da sempre un mezzo che  usato in tre casi: uno economico, famosi sono i messaggi in codice inviati dai mercanti veneziani; uno diplomatico e mi rifaccio sempre a quelli inviati    dal governo della Serenissima ai vari diplomatici, e uno militare e qui non ci rimane che l’imbarazzo della scelta ma viene spontaneo citare i geni di Bletchley Park, Alan Turing e le sue “bombe” e la lotta per scoprire i segreti della macchina cifrante tedesca Enigma. Quindi, tre casi a cui si sono aggiunti, nel corso dei secoli, altri diremmo “privati” come le lettere tra principi delle Signorie rinascimentali o, al limite, scambi amorosi tra personaggi che avevano la necessità di celare, visto il loro rango, le “scappatelle”.

Tornando ai tre casi principali di uso della crittografia, e del conseguente utilizzo di tecniche di decrittazione, notiamo che si tratta sempre di modi in cui il fine ultimo era il bene politico e sociale dello stato per cui si operava. Anche i mercanti veneziani, che molto spesso venivano usati dal governo anche come diplomatici o vere e proprie spie, seppur non disdegnando i propri interessi, lavoravano, si direbbe oggi “sotto copertura”, per lo stato.

Oggi le cose sono cambiate . L’enorme aumento delle possibilità di comunicare, specialmente dopo la nascita di Internet, ha creato anche per il privato un problema di difesa della privacy. Cosa sacrosanta in un regime democratico e in pace col mondo. La domanda, però, sorge spontanea. In un periodo di guerra (ce lo dicono quasi tutti i giorni) seppure non dichiarata, seppure non convenzionale ma, anzi, doppiamente pericolosa perché inafferrabile, quanto è giusto difendere a spada tratta la nostra privacy? Sappiamo ormai per certo che il canale preferenziale per l’arruolamento di fighters europei per l’Isis passa per le reti informatiche. Sappiamo per certo che anche l’ordine di operatività per le cellule dormienti nei paesi occidentali, spesso con messaggi in cifra, si serve di  internet.

Detto questo, e avendo la percezione esatta che la guerra al terrorismo passa soprattutto da un lavoro di intelligence, quanto difendere posizioni come quelle di Apple versus FBI è giusto? Ho seguito, come tutti, le ultime vicende di Bruxelles così come quelle di Parigi, per non dire di molte altre, e uno dei problemi che viene sempre sollevato, salvo poi “dimenticarsene” man a mano che ci si allontana da quei fatti e riparlarne furiosamente quando si ripresenta un nuovo attentato, è la mancanza di coordinamento tra le varie polizie europee e i vari servizi di informazione.

E’ cosa giustissima, ma è bene che si sappia che uno dei mezzi che questi uomini hanno per controbattere quello che ormai è il nemico non solo “alle porte” ma già dentro le nostre mura e comandato da fuori, è l’intercettazione e la possibilità di poter “leggere” anche i messaggi criptati che le famose cellule ricevono.

Ora, la domanda è semplice: in una democrazia la difesa della privacy è sempre e comunque da difendere contro tutto e contro tutti, oppure in tempi di terrorismo finalizzato all’attacco di popolazioni civili ed indifese, per la difesa nazionale si può rinunciare a un poco del nostro privato? Io credo che si possa, anzi si debba. L’FBI, nel caso specifico, non voleva conoscere i messaggi di tutti i clienti di Apple ma solo avere la chiave di lettura per “andare a vedere” quelli dell’IPhone di due terroristi, per rendersi conto se si trattasse di un caso isolato o si era di fronte ad un attacco ordinato dall’estero o, addirittura, capire se ci fossero stati altri commando in grado di agire e in che tempi.

Un sistema di difesa che, durante la seconda guerra mondiale, non avrebbe avuto nessun problema ad essere autorizzato e utilizzato. Il problema è che ancora non ci siamo resi ben conto in quale tipo di problematica stiamo vivendo. Certo, se il termine di “guerra” si configura nell’immaginario collettivo con i bombardieri che solcano i cieli, con le marine che si affrontano nei sette mari, con gli eserciti che si danno battaglia nei territori, non di questo stiamo parlando. Esiste, però, un altro tipo di conflitto strisciante, subdolo, sotto traccia che non ha bisogno di grandi eserciti, di flotte, di stormi di aerei per colpire. Ha bisogno di persone pronte a sacrificarsi con una cinta esplosiva, ha bisogno di colpire indiscriminatamente tra i civili perché l’inquietudine si propaghi come la nebbia mattutina, silenziosa, lenta ma costante.

Ha bisogno di agire servendosi del “vicino di casa” insospettabile, bravo ragazzo, o anche del bandito di strada convertito all’integralismo. Certamente l’Isis, nonostante i suoi proclami altisonanti, non arriverà mai a Roma con le sue bandiere nere, ma già il fatto che si debba andare in piazza San Pietro a sentire il Papa oltrepassando, giustamente, diversi “cancelli protettivi” non è già di per se una piccola abdicazione alla nostra privacy? Il fatto di dove far vedere i nostri bagagli, i nostri zainetti, alle stazioni, agli aeroporti e in altri luoghi importanti di passaggio, non è una piccola limitazione alla nostra libertà? E allora, di che stiamo parlando? Di una azienda mondiale che sovrappone alla difesa nazionale l’interesse dei propri clienti? Bene, basta scegliere ma se poi, grazie a un messaggio criptato inviato da X al commando Y, che la polizia per legge non ha potuto conoscere, altri assassini dovessero sconvolgere una delle nostre città, almeno non ci stracciamo le vesti e limitiamoci a piangere i nostri morti.

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